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Sono troppi 80 Conservatori? Inchiesta

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Storia di una mancata innovazione.

L’Italia vanta un primato europeo: conta il maggior numero di istituti musicali di alta formazione, dunque autorizzati a rilasciare  lauree musicali di I e di II livello. Sono i 59 Conservatori, i 18 istituti ex-pareggiati ormai in fase di statizzazione e i cinque istituti accreditati. Sono frequentati da 50mila studenti il 10% dei quali si laurea ogni anno.

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Sono troppi questi istituti (che nell’inchiesta – per comodità – chiameremo conservatori)? Dipende dal punto d’osservazione della faccenda. Facciamo benchmarking. La Francia ha un centinaio di conservatori municipali e 36 regionali, ma quelli abilitati a rilasciare titoli equipollenti a lauree sono solo due: l’uno è a Parigi e l’altro a Lione. In Germania, Paese di riferimento per la formazione musicale, le Musikhochschulen sono 33, suppergiù  1/3 delle nostre, e ciò in un Paese con 20ml di abitanti in più rispetto all’Italia e soprattutto 129 orchestre professionali finanziate dallo Stato a fronte delle nostre  27 (sostenute con fondi pubblici), alludiamo alle 13 ICO (Istituzioni Concertistico Orchestrali) e alle 14 Fondazioni Lirico-sinfoniche. 

Cattedrali nel deserto

I numeri non tornano, dunque. Qualcosa non va. Non va perché i nostri conservatori rischiano di diventare cattedrali nel deserto nel senso che stiamo assistendo alla desertificazione di orchestre e teatri, così come la sopravvivenza delle stagioni cameristiche si deve alla tenacia, e spesso volontariato, di qualche organizzatore. La radice di tutti i mali è una: lo scarso peso che il nostro Paese e la sua scuola attribuiscono all’educazione  musicale e questo nell’Italia che ha inventato strumenti musicali, pentagramma, note, forme e generi tra cui l’opera. In mancanza di un’adeguata conoscenza o almeno sensibilizzazione all’arte della musica è poi difficile avere spettatori, consumatori, in una parola: il mercato.

“Fior di musicisti escono dai conservatori italiani, però poi c’è il vuoto”, commenta Marco Rizzi, violinista di lungo corso che qui coinvolgiamo per il suo ruolo di didatta  nella Hochschule für Musik di Mannheim, insegna inoltre nel Conservatorio di Lugano e nella Escuela Superior de Música Reina Sofia di Madrid. “L’alto numero dei conservatori cozza con quello basso delle orchestre”, conferma il violoncellista Enrico Dindo,  noto concertista, fondatore dei Solisti di Pavia e cattedra al Conservatorio di Lugano.

Cosa fai? Il musicista. Sì, ma di mestiere?

La musica dovrebbe entrare nei percorsi formativi: è questo il nodo cruciale del problema e che alimenta le continue battaglie del direttore d’orchestra Riccardo Muti che nei giorni scorsi – si legge su un quotidiano – s’è confrontato con il ministro dell’Istruzione, “mi ha detto che si preoccuperà in modo concreto  di riportare l’insegnamento delle musica dalle elementari l’università”. Ed è sempre Muti a sollecitare la riapertura dei piccoli teatri sparsi per l’Italia affidandone la gestione a giovani musicisti per i quali si batte con parole e fatti: nel 2004 lanciò l’orchestra Cherubini per talenti italiani, una palestra di formazione triennale. Per dirla con Rizzi, “dobbiamo creare una catena di trasmissione fra formazione e professione” per evitare che i conservatori diventino fabbriche di disoccupati. Oppure di occupati in tutt’altre mansioni. 

Non solo palcoscenico 

Il piano studi di conservatorio prevede diverse materie d’indirizzo, ma tutte afferenti lo studio di uno strumento musicale. Appresa la pratica del quale, e in alcuni casi congiuntamente ad altro, si possono poi intraprendere diverse strade professionali. C’è il filone esecutivo declinato a seconda delle qualità musicali, tecniche e di personalità, si va dall’attività del concertista solista, alla musica da camera e orchestrale. C’è il filone della  didattica, anche qui a vari livelli, quindi della ricerca, della comunicazione e marketing musicali. L’industria culturale del nuovo millennio chiede figure diversificate. Il problema è che, con le dovute eccezioni,  in conservatorio continua a prevalere l’orientamento al fatto esecutivo puro se non addirittura al solismo.

L’Incompiuta. 

Sui conservatori pende, poi, la spada di Damocle della legge 508 del 1999, non attuata nella sua interezza. La 508 avrebbe trasformato i conservatori in istituti universitari, equiparazione per tanti versi solo di facciata. Abbiamo sentito sul tema l’avvocato Ivano Iai, presidente del Cda del Conservatorio di Sassari. “Abbiamo chiesto al Ministro che  riconosca ai Conservatori la stessa dignità dell’università da un punto di vista giuridico ed economico così come vorremmo che la fase concorsuale fosse autonoma  e non sulla base di una graduatoria nazionale”. Perché per la scuola in generale ed i conservatori nello specifico, il problema  è sempre lo stesso: le modalità di reclutamento. Il successo di un istituto dipende da chi si porta a bordo, successo difficile da conseguire se la selezione degli insegnanti di conservatorio si basa su graduatorie nazionali che hanno per parametro il numero degli anni di servizio anziché la qualità della vita artistica (concerti fatti). L’esito è quello che i nostri migliori concertisti abbiano cattedre all’estero, per la qual cosa incide il diverso trattamento economico, in Germania per dire guadagni tre volte tanto. Ma non è solo una questione di stipendio. “Nel mondo – spiega Dindo – i docenti sono selezionati tramite concorsi internazionali, su un posto vacante, prevedono almeno tre prove ed esigono che il  candidato abbia una vita concertistica di rilievo”. Selezionando in base ad un criterio meritocratico si crea una classe di docenti appartenere alla quale è motivo di vanto.

Troppi?

Torniamo all’interrogativo di partenza. Gli 80 e passa conservatori sono troppi? Sì. Anche se…Diamo la parola ai musicisti. 

“Trovo efficace il sistema francese, quella struttura piramidale che prevede una grande diffusione di conservatori regionali e municipali ma con due sole scuole di alto perfezionamento” dichiara Beatrice Rana, la nostra pianista italiana più nota internazionalmente e tra l’altro figlia di due docenti di Conservatorio. E’ sulla stessa lunghezza d’onda Dindo “ci vorrebbero pochi conservatori di alto livello in un’Italia cosparsa di scuole di musica. I Conservatori italiani fanno operazioni lodevoli adattandosi a una situazione assurda per cui si inventano, per esempio, corsi propedeutici per ovviare alla mancanza di una formazione musicale di base. La Germania è piena di orchestre amatoriali, so di un’orchestra di medici per esempio, questo accade perché è normale che tutti studino musica”. Del resto, aggiunge Rizzi “il sistema tedesco prevede studi propedeutici e di pre-college che saranno poi la fucina cui attingono le Hochschule für Musik”. E poiché l’Italia è campionessa nell’arte dell’arrangiarsi, conosce realtà virtuose che ovviano al problema di partenza, accade così che in una valle bergamasca possa nascere un’accademia privata come I Piccoli Musici di Casazza di cui conosciamo il coro per via del concerto di Natale che tiene ogni anno da Assisi in onda sulla Rai e in eurovisione, perché ci rappresenta all’Onu, canta per i papi, perché vice in  concorsi internazionali issando la bandiera italiana. Da menzione l’attività di diffusione musicale in tutto il Piemonte svolta dal’Accademia Perosi di Biella. Per citare due casi. Non gli unici per fortuna. Anzi. 

CONSERVATORIO DI MILANO – LA BOTTEGA DI MUSICA NUMERO UNO

Premessa. La pianista più nota d’Italia è Beatrice Rana ed è diplomata a Monopoli  dove è stata allieva di un didatta straordinario come Benedetto Lupo, così come l’unico italiano nell’orchestra dei Wiener (quella del Capodanno viennese) è Enzo Turriziani diplomato a Terni. Per dire che le eccellenze musicali sbocciano anche negli angoli più remoti del Paese perché la qualità la fa l’insegnante e i grandi talenti prescindono dai comuni parametri. S’aggiunga che soprattutto in ambito musicale incide la famiglia di provenienza.

Detto questo,  la bottega di musica più prestigiosa del Paese è il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Si parte dai numeri, 1720 studenti e 270 docenti, numeri che consentono di progettare  in grande, perché anche in questo ambito il “piccolo non è bello”. Inorgoglisce l’albo d’oro degli ex-allievi, i direttori d’orchestra Abbado, Muti, Chailly, Gatti, Noseda (in ordine anagrafico), i compositori Boccadoro e Vacchi, un pianista come Pollini. Milano, poi, è la città musicalmente più vivace del Paese, tale per la presenza della Scala, di associazioni di musica da camera, di un ricco sistema di auditorium e orchestre. 

La differenza, poi, la fa chi sta al timone. In questo caso la direttrice Cristina Frosini fautrice di  una vera e propria rivoluzione: ha aggiunto corsi come la popular music, percorsi per la salute del musicista, corsi per Giovani talenti aperti agli studenti particolarmente giovani, che non hanno l’età per accedere al Triennio, ma le competenze per affrontare un percorso di studi di livello triennale. E soprattutto, Frosini  ha reso il Conservatorio un centro di produzione dove sono fiorite l’Orchestra Sinfonica, la Verdi Jazz Orchestra, la Banda del Verdi, una serie di gruppi da camera e pure produzioni operistiche. “Facciamo circa duecento concerti all’anno, con due stagioni ricorrenti, MUSICA MAESTRI! che vede in scena docenti anche con studenti, I SUONI DEL CONSERVATORIO dedicata agli studenti, oltre ai concerti fuori sede. Ci siamo mossi nel solco indicato dalla riforma, che assegna ai conservatori tre mission: la didattica, la produzione e la ricerca. Non dimentichiamoci mai che la professione del musicista si impara in classe, ma soprattutto sul palcoscenico nel confronto con i colleghi e con il pubblico”. Parola di Frosini che siede al posto di comando dopo una lunga carriera da concertista. Sa di quel che parla. 

Anna Franini
Anna Franini
Anna Franini, giornalista di Forbes e il Giornale. Scrive storie di Leadership, Imprenditoria, Innovazione. Intervista fondatori di aziende miliardarie, Premi Nobel, Breakthrough, Academy Awards, Pulitzer, Pritzker.
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