WOODY ALLEN

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Magrolino, occhiali dalla montatura spessa, sguardo che s’abbassa malinconico, Allen parla di Schicchi.

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Non mancano lampi di umorismo, del tipo: «Questi ragazzi mi stanno a sentire come se io sapessi più di quanto sanno loro».

Per dire che sono bravi…

«Sono stupefatto per quanto sono meravigliosi. Quando mi dissero che avrei lavorato con un cast di studenti, ero molto curioso di vedere come avrebbero affrontato le difficoltà di un’opera che è principalmente comica. Stanno soddisfacendo i miei intendimenti e quelli di Puccini».

Colloca l’opera nell’Italia dell’immediato secondo dopoguerra. Perché?

«Quando Marc Stern e Placido Domingo mi chiesero di lavorare a un’opera, io non conoscevo molto bene Gianni Schicchi. Poi lessi la trama e il mio primo impulso fu quello di trasformare i personaggi in topolini, e Gianni Schicchi in un topone. Ma l’idea non piacque. Allora pensai di travestirli da cibo biologico mentre Schicchi sarebbe stata una sigaretta, bocciata anche questa versione. Mi ispirai infine al neorealismo italiano, ai lavori di De Sica e Fellini».

Placido Domingo che argomenti usò per convincerla a fare un’opera?

«Iniziò a parlarmene tanti, tanti anni fa. Poi, un mio parente alla lontana che lavorava all’Opera di Los Angeles fece comunella con Domingo e iniziarono a esercitare pressioni su di me. Mi spiegarono che sarebbe stata un’avventura affascinante, e io accettai. Non sapevo se sarei stato in grado di fare questo genere di cose».

Se dovesse comparare questa esperienza a quella del set?

«Nei film, ragioni per piccoli pezzi e sequenze. Qui l’arco è più lungo. Gli artisti sono pieni di verve, vorrebbero sempre cantare. C’è una grande energia ed entusiasmo».

Le piace il personaggio Gianni Schicchi?

«Ho un debole per le persone che vivono ai margini della società e pure leggermente al di fuori della legge, quindi provo un grande affetto per Schicchi, per questo non lo manderei all’inferno (così come Dante, ndr). Anzi, gli farei avere una buona pensione e una vita felice in campagna».

Lavorerà a una seconda opera?

«In Schicchi c’è un perfetto uso della scrittura comica, è un titolo corto, perfetto per me. Per un secondo titolo dovrei trovare qualcosa di facile. Non sono un esperto di regia d’opera».

La sappiamo appassionato di jazz. Quanto alla lirica?

«L’opera mi è sempre piaciuta. Avevo un bel posto al Lincoln Center di NY, il problema è che l’opera è lunga. Riesco a stare due atti, non di più. Devo alzarmi presto al mattino per lavorare. Quindi mi mancano tutti i terzi atti delle opere viste. Mi piacerebbe una serata di terzi atti. Chissà se la fanno».

Il suo film A Rainy Day in New York uscirà in Italia il prossimo ottobre. A cosa sta lavorando ora?

«Dopo il debutto di sabato, parto per San Sebastian per girare un altro film (il 51esimo, ndr). Uno dei piaceri della mia vita è stato quello di prendermi una pausa e venire in un luogo così iconico come la Scala».

Anna Franini
Anna Franini
Anna Franini, giornalista di Forbes e il Giornale. Scrive storie di Leadership, Imprenditoria, Innovazione. Intervista fondatori di aziende miliardarie, Premi Nobel, Breakthrough, Academy Awards, Pulitzer, Pritzker.
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