Non sopporto i selfie, sono una pratica malsana. Parlo poco ma mi piace ascoltare la gente, anche se poche volte dice cose interessanti”
John Malkovich è una superstar. La sua filmografia è un’infilata di pellicole memorabili, più di settanta per il grande schermo. Si va da «Educazione siberiana» a «Red», «Le relazioni pericolose» (anzitutto per lui: perse la testa per Michelle Pfeiffer e divorziò dalla prima moglie). Ha però un rapporto equilibrato con la fama, è una persona normale, lontano dall’eccesso e dall’enfasi, aiutato da una buona dose di ironia e autoironia. E, va da sé, da una punta di cinismo. Un professionista rigoroso, lineare anche nella vita privata, almeno nelle ultime tre decadi. Dal 1989 è compagno di vita di Nicoletta Peyran, piemontese, un tempo aiuto regista di Bernardo Bertolucci. Galeotto – infatti – fu il set di «Té nel deserto». Lì sbocciò la relazione: questa volta non solo non fu pericolosa ma si è rivelata duratura.
L’anno prossimo, a Londra, sarà Harvey Weinstein nell’opera teatrale di David Mamet, è già impegnato nel nuovo adattamento TV della serie infernale di Agatha Christie «The ABC Murders», dove lui è Hercule Poirot. Sta girando «Billions». E’ nel cast di «The New Pope» di Paolo Sorrentino.
Così sarà Weinstein. Ha già letto il copione?
«Certo, è tutto pronto».
Come l’ha trovato?
«E’ un’opera formidabile. Mamet è un grande scrittore, l’ha confermato un’altra volta».
Una sfida mettersi nei panni dell’orco di Hollywood
«E’ un personaggio che turba, onestamente è proprio inquietante».
L’ha mai incontrato?
«Un paio di volte, sempre a Cannes e sempre brevemente. Non posso dire di averlo conosciuto».
A questo punto, calarsi nel ruolo di Hercule Poirot è rassicurante. Anche a lei piace investigare?
«Mah, non ne farei la mia occupazione. C’è stato un periodo in cui mio figlio mi spingeva a fare delle ricerche per lui, via internet. Mi chiedeva di investigare su quel tizio, poi su quell’altro, quindi su situazioni. Penso che fosse un suo modo per comunicare e per coinvolgermi. Al di là di questo, se c’è qualcosa che mi interessa tendo ad approfondire. Però non mi ci vedo a fare il detective di professione».
E come la mettiamo con il senso del rigore e la meticolosità ossessiva di Poirot?
«Tutto sommato anch’io sono rigoroso, ma non in modo maniacale come Poirot».
E’ proverbiale il suo essere laconico. Possiamo definirla più ascoltatore che conversatore?
«Mi piace ascoltare quello che dice la gente. Specialmente quando ha qualcosa di interessante da dire».
E la cosa accade con che frequenza?
«Direi solo raramente».
L’Italia cosa è per lei?
«Per esempio è Riccardo Muti. Tra l’altro abbiamo lavorato assieme a Chicago, e quest’estate a Ravenna e a Kiev per le Vie dell’Amicizia. Ero la voce recitante del Lincoln Portrait di Aaron Copland».
Un pezzo patriottico. Lei è orgoglioso di essere americano?
«Più che orgoglioso, direi fortunato. Mi sento profondamente americano anche se almeno metà della mia vita l’ho passata all’estero. Questo brano venne scritto l’indomani di Pearl Harbour, era un tentativo di unire il popolo attorno a una storica figura come quella di Lincoln. Trovo questa pagina molto toccante e profonda, aggiungo con una punta di cinismo che non lo sento così perché sono americano, credo sia tale per tutti, a prescindere dalla nazionalità».
Chiude con un inno al governo del popolo, dal popolo, per il popolo. Idea che «non abbia a perire sulla terra» si legge.
«Una sfida allora, ma una sfida anche adesso, c’è ancora tanto da fare. Però non mi faccia parlare di politica (non vota dal 1972, anno in cui George McGovern venne battuto da Richard Nixon ndr)».
A proposito di popoli. Che dire di quello italiano?
«Ha un buon senso dell’ironia e autoironia. Sa di aver avuto una grande storia, e giustamente ne va orgoglioso. Per me l’Italia corrisponde a Antonioni, Liliana Cavani, Marcello Mastroianni. Ora ho lavorato con Muti anche se alla fine, e aggiungo purtroppo, ci si vede solo qualche minuto alle prove e poi al concerto. E’ sempre tutto così veloce. Di Muti mi piace la sua profonda conoscenza della materia, è colto ma allo stesso tempo istintivo. Professionale. Lavora tantissimo».
Come lei. E’ un noto stakanovista.
«La vita lavorativa non è infinita. Continuo finché posso. Anche perché non si sa mai quando è in arrivo una nuova scrittura. La mia professione è fatta così, possono esserci dei vuoti. Ora sono impegnatissimo, ma vi sono stati anni in cui avevo ridotto di molto gli impegni».
Quando?
«Quando i miei figli erano piccoli. Volevo vederli crescere. Quindi accettavo solo quegli impegni che mi tenessero lontano da casa non più di cinque giorni consecutivi. Ora sono grandi, quindi».
Ha lavorato con tanti registi italiani, Antonioni, Bertolucci, Salvatores, Cavani, ora Sorrentino.
«Tutti i registi italiani sono divertenti, anche Antonioni che apparentemente sembrava freddo. Salvatores è uno dei pochi registi che faccia anche teatro e questo gli dà una grande prospettiva, sa che tipo di interpretazione chiedere a un attore».
Accennava a Mastroianni.
«Un attore appassionato del proprio lavoro. Anche al culmine della carriera, si metteva a completa disposizione del regista come un attore novello».
Dicono lo stesso di lei.
«Diciamo che provo a dare il meglio di me, mi impegno a offrire ciò che i registi chiedono e vogliono. Penso che faccia parte del mio mestiere. Quando reciti, entri nel sogno di un’altra persona».
Sempre innamorato del set?
«Come agli inizi. Questo lavoro mi piace ancora. È una cosa che non capita a tutti, ma talvolta accade. Accadeva a Mastroianni, per esempio».
Come è possibile mantenere la fiammella viva?
«Testardaggine, persistenza, talento, e un po’ d’insanità. E prima di tutto: passione».
E versatilità.
«Sento il bisogno di diversificare. Cinema, teatro, collaborazioni con artisti di musica classica, penso all’amico Martin Haselböck: abbiamo fatto tante cose assieme. Penso al progetto «Report in the blind». Insomma, mi piace quel che faccio. Adoro l’idea di lavorare in altre discipline, con altri artisti. Mi piace chiudere sul set, andare in teatro per provare un nuovo spettacolo e pensare a una nuova linea di abiti».
Cosa invece non ama o la innervosisce?
«Viaggiare non è sempre così divertente, anzi è spesso stancante: si parte dal fuso orario. Però sono grato al mio lavoro per la qualità della vita che mi ha offerto fino ad ora. Ho potuto collaborare con persone speciali. Mi sento un uomo fortunato. Dopotutto ero un ragazzo del Midwest. Chi avrebbe detto che dall’Illinois sarei arrivato qui».
Ha detto d’essere cresciuto in una famiglia dove i genitori non premiavano le conquiste di voi figli, considerandole una cosa dovuta. Questo approccio le ha forse causato problemi di autostima?
«Nessun problema. Anzi, magari mi ha portato ad avere fin troppa autostima».
Che rapporto ha con la fama? La disturba essere fermato per strada, nei ristoranti, in aeroporto
«Non mi infastidisce essere fermato. Quello che trovo seccante sono i selfie. Condidero proprio irritante la moda dei selfie. Gli psichiatri parlano infatti dell’oscura triade: psicopatia, machiavellismo, narcisismo, un cocktail che spinge all’esaltazione del selfie».
Neppure fra amici?
«Sì, quello sì, ma anche se me lo chiede un bambino. Però è cosa malsana che un estraneo pensi che sia normale disturbare un’altra persona chiedendole di posare con lui. Anche perché si ripete il solito copione: ti avvicinano, sono nervosi, non riescono a scattare la foto e ti spiegano che il telefonino ha la memoria piena. Ecco per me tutto ciò è un’invasione di campo. E’ uguale che uno mi chieda di fare un selfie oppure di potermi dare uno schiaffo. Sono entrambe azioni invasive. Uno vorrebbe anche provare ad avere una vita».
Dicono che faccia parte del vostro mestiere.
«Lo so. Mi viene puntualmente ricordato. Però se uno decide che da domani tutti gli attori che fanno un brutto film vanno picchiati perché fa parte del mestiere, allora cosa si fa? Si applica la nuova tendenza? Se una tendenza è sbagliata va rimossa».
La gratifica il contatto con la gente, con il pubblico o preferisce la distanza?
«Mi piace dialogare, sentire, parlare. Se uno mi ferma e dice ho visto il tuo ultimo film, non mi sei piaciuto. Bene, discutiamone. Perché? Così come se vado a Firenze, mangio al Cibreo e uno mi ferma in aeroporto dicendo: Ieri ti ho visto in quel ristorante, cosa t’è parso? Sì mi è piaciuto, rispondo, e spiego i miei piatti preferiti e ascolto i suoi. Insomma si conversa. Ma che la gente si senta in diritto di inserirti nelle proprie foto, questo no. Non mi va».
Quello per il teatro e il cinema è stato un amore non proprio precoce.
«Da bambino ero molto attratto dallo sport. Sì, la recitazione è stata una scoperta della prima gioventù. Avevo una fidanzata al college che era un’attrice, una buona attrice. Andavo alle prove, spettacoli, così scoprì che recitare piaceva anche a me. Iniziai a studiare, e via».
con la creazione di una compagnia a Chicago.
«La Steppenwolf Theater Company. C’erano tanti miei colleghi pieni di talento. All’inizio furono anni di magra, ma eravamo felici perché stavamo facendo quel che volevamo. I primissimi tempi c’era una parte di me, forse quella preponderante, che pensava che non ce l’avremmo fatta».
Invece la Steppenwolf c’è ancora.
«Iniziò a diventare piuttosto conosciuto a Chicago fino all’esplosione quando portammo la nostra prima produzione a NY, True West. Fu un successo che aprì la strada a New York.
Ha lavorato in opere dai costi folli e altre dai budget più limitati. Come cambia il modo di lavorare?
«Recitare è recitare a prescindere dal fatto che tu possa contare su un budget di 400 milioni o 40 dollari. Alla fine tu arrivi e fingi di essere qualcun altro, di stare in un posto dove non sei, facendo cose che non stai facendo».
Una filmografia densa, 25 premi, 26 nomination, più volte vicino all’Oscar che tuttavia non ha mai afferrato.
«Ho vinto alcuni premi nella vita e ne ho persi centinaia, e la cosa non mi ha mai procurato infelicità. Non sono uno che conduce campagne pro-Oscar, non spendo né energie né soldi dietro a questo genere di cose».
Non ama le classifiche e i confronti?
«Faccio un esempio. Io leggo molto. Quando leggo non mi accade di comparare un libro al precedente, non mi chiedo se sia stato meglio l’uno o l’altro».
Cosa ha imparato in questi decenni di carriera?
«Quello che impari andando avanti è che non sappiamo nulla. Credo in quella battuta del film di Liliana Cavani, Gioco di Ripley, la sola cosa che so, è che si rinasce in continuazione».
Ora ha lanciato la sua terza linea di abiti.
«Con la moda iniziai una quindicina di anni fa. Alla fine, l’arte del costume fa parte della mia professione. Ho studiato anche questo all’università. E poi, nel nostro lavoro ci sono tempi morti. Capita di stare ad aspettare a lungo fra un ciak e l’altro. Io non riesco a rimanere in attesa senza far niente. Ho bisogno di fare. Così ho deciso di disegnare i miei abiti».