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Lavoro? No grazie

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The Great Resignation» o anche «The big Quit». È l’ultimo fenomeno americano legato al mondo produttivo: è l’addio volontario al posto di lavoro. Nei mesi dell’uscita dal Covid i numeri si sono impennati e le due espressioni citate sono diventate sinonimo di dimissioni di massa. Il picco – così il Bureau of Labor Statistics – si è avuto in novembre, quando 4,5 milioni di americani si sono licenziati superando il record di settembre (4,4 milioni). Nel 2021 sulle scrivanie dei datori di lavoro Usa sono arrivate 20 milioni di lettere di dimissioni.

Accade nel Paese che ha costruito il proprio successo sull’etica puritana del lavoro. Un’etica – spiega il New York Times – in crisi per via dei sussidi ricevuti per contrastare il Covid, che alla lunga fiaccano voglia di reagire e darsi da fare. Ma il fenomeno – continua il NYT – va anche interpretato come segnale della ricerca, indotta dal virus e dalla scoperta dello smart working, di un nuovo equilibrio tra vita personale e vita professionale, e come una richiesta collettiva di condizioni lavorative migliori. Secondo analisi condotte dall’Harvard Business Review i tassi di dimissioni sono più alti tra i dipendenti a metà carriera, con punte nei settori della sanità e tecnologia dove le dimissioni sono aumentate – rispettivamente – del 3,6% e del 4,5%. Sono i settori i cui, durante la pandemia, c’è stato un aumento esponenziale del carico di lavoro. Ma anche quelli in cui è più facile (ri-)trovare eventualmente un posto. E questo alimenta il coraggio dei dimissionari. Si spiega così anche l’aumento degli addii volontari segnalati in Italia dai dati del Ministero del Lavoro per il periodo aprile-novembre: un sonoro +23,2% rispetto al 2019. In un momento in cui l’economia è in ripresa c’è più spazio per cercare percorsi nuovi.

In Cina

Molto lontano dall’Italia e dagli Usa tra i giovani delle aziende hi-tech cinesi s’è fatto largo un movimento rivoluzionario che in qualche modo riecheggia i fenomeni appena citati: il tangping, letteralmente «stare sdraiati per terra». È una forma di resistenza passiva contro la pressione sociale e i ritmi eccessivi, per intenderci quelli che Jack Ma, fondatore di Alibaba, sintetizza nella formula 996, alludendo all’operatività dalle 9 del mattino alle 9 di sera per 6 giorni a settimana. Il tang ping, antidoto contro il successo a tutti i costi, è per certi versi assimilabile al credo cui s’ispira il movimento statunitense «Anti-Work» che incoraggia il milione e 250 mila followers (quasi decuplicati nell’ultimo anno), che seguono un canale Reddit con questo nome, a lavorare il meno possibile e preferibilmente per sé. Il movimento si salda con la Yolo economy, una corrente di pensiero il cui imperativo è «Viviamo una volta sola» (You-Only-Live-Once).

Eppure non si è mai faticato così poco

Il paradosso, di fronte a questi movimenti anti-lavoro che in qualche modo la post-pandemia sembra portare con se’, è che non si è mai «faticato» così poco: meno ore al giorno, meno giorni a settimana e meno settimane all’anno. Come ricordano gli studiosi Michael Huberman and Chris Minns, nel 1870 si era produttivi mediamente 3mila ore l’anno, 70 ore a settimana. Numeri oggi più che dimezzati. Negli anni subito procedenti il Covid, in Germania si lavorava il 60% in meno rispetto al 1870. Quanto all’Italia la riduzione è stata del 43%, suppergiù come in Giappone. I dati relativi al 2020 si scostano di poco rispetto a quelli degli anni precedenti. Le ore lavorative italiane sono a quota 1.559 mentre gli stakanovisti sono in Colombia (2.172), Messico (2.124), Costa Rica (1.913), Corea del Sud (1.908), tutte sopra la media Ocse di 1.687. La Germania, considerata patria del lavoro e dove la virtù della diligenza professionale regna sovrane, è uno dei paesi dove si «fatica» meno: 1332 ore l’anno. E intorno ai dati tedeschi si situano i diligenti paesi del Nord Europa.

Ricchi scansafatiche

Per inquadrare il crollo dell’impegno lavorativo bisogna porsi una domanda: quanto si produce e qual è il ritorno economico per un’ora di lavoro? Perché è la produttività del lavoro ciò che più conta: il rapporto tra la ricchezza prodotta e misurata con i dati del PIL e il numero di lavoratori e di ore complessivamente lavorate. Il valore riflette il grado di efficienza di lavoratori e aziende nel produrre beni o servizi. Da questo punto di vista l’Italia non brilla: tra i Paesi più industrializzati siamo nelle prime posizioni per numero di ore lavorate ma nelle posizioni di coda per livelli di produttività. In Germania si lavora molto meno, ma il sistema brilla per efficienza produttiva.Nei decenni (e nei secoli) la diminuzione delle ore di lavoro è stata accompagnata dall’aumento dei redditi medi. L’innovazione tecnologica incrementa la produttività del lavoratore, gli aumenti di produttività a loro volta guidano sia gli aumenti dei redditi che la diminuzione delle ore di lavoro. Negli Stati Uniti, per esempio, la produzione agricola per ora di lavoro è aumentata di quasi 16 volte dal 1948 al 2011. Proprio per questo è possibile nutrire una popolazione cresciuta rispetto al 1948 anche se i lavoratori impiegati nell’agricoltura non sono mai stati così pochi. In sintesi, le strutture tecnologiche, economiche e sociali dei paesi più ricchi hanno permesso ai lavoratori di produrre di più lavorando meno. Fermo restando che diversi studi dimostrano che la riduzione del tempo lavorativo favorisce a sua volta un’alta produttività. Un economista dell’università di Stanford, John Pencavel, ha dimostrato che la produttività rimane alta fino a una certa soglia di ore dopo la quale diminuisce sensibilmente. Come spiegano altri economisti, da Diane Coyle (docente a Cambridge) a Leonard Nakamura (ex capo economista alla Federal Reserve di Philadelphia), esaminare la quantità di ore di lavoro è cruciale per misurare sia la produttività macroeconomica sia il benessere. I lavoratori dei Paesi più poveri lavorano di più, e a volte molto di più, di quelli dei paesi più ricchi: poiché la loro produttività è bassa, devono compensare aumentando le ore di lavoro.

Dove si lavora di più?

Come abbiamo visto secondo l’ultima indagine Ocse il Paese in cui si lavora di più è la Colombia. Nel 1870 il primato era dell’oggi ricco Belgio con 3.483 ore l’anno, seguivano la Svezia con 3.436 ore e gli Usa dove la media era pari a 3.096. La diminuzione di ore lavorative è stata piuttosto lenta fra il 1870 e il 1913, decisa fra il 1913 al 1938, tutt’uno con i cambiamenti sociopolitici, tecnologici ed economici sfociati nella seconda guerra mondiale. Dopo un timido crescendo di ore registrato durante e subito dopo la seconda guerra mondiale, la curva ha ripreso a scendere e soprattutto nei Paesi più prosperi. Poi bisogna distinguere caso per caso. Un caso a sè è la Corea, passata dalle 2.305 ore degli anni Cinquanta alle 2.900 dei ruggenti Ottanta, per poi scendere oggi collocandosi comunque ben oltre la media Ocse. Le statistiche sul lavoro oggi devono fare i conti con una novità sdoganata dalla pandemia: lo smart working. Dopo l’ubriacatura iniziale il 2022 dovrebbe essere l’anno dell’assestamento. Se prima e durante l’emergenza si è lavorato negli orari abituali, a casa come in ufficio, secondo uno studio realizzato da Variazioni, società di Arianna Visentini, nel 2022 aumenterà ancora la flessibilità: l’orario sarà ancora più variabile, personalizzato, e in funzione degli obiettivi. Una svolta resa possibile dall’aumento della fiducia nei confronti del lavoratore e dalla possibilità di misurare i risultati del suo lavoro. «I dati parlano chiaro – spiega Arianna Visentini – è cambiata l’importanza che i lavoratori attribuiscono ad autonomia e flessibilità. Il modo di lavorare sarà sempre più agile e anche le aziende meno ben disposte dovranno adeguarsi se non vorranno perdere competenze». Dietro l’angolo, come in America, c’è «The Great Resignation».

La settimana corta. Anzi, cortissima

Settimana corta, anzi cortissima: 4 giorni lavorativi in tutto. Gli esperimenti sono ormai numerosi e uno dei più approfonditi l’ha organizzato l’Islanda fra il 2015 e il 2019, in 66 luoghi di lavoro fra uffici pubblici, servizi sociali, scuole materne e ospedali coinvolgendo 2.500 persone. Il risultato? La produttività è rimasta costante e in taluni casi è aumentata, passando da 40 ore alla settimana a 35 i lavoratori si sono dimostrati più soddisfatti e meno stressati.

La pandemia ha riportato l’attenzione sul tema: ora si parla di settimana di 4 giorni anche in Nuova Zelanda, dove l’Unilever consente l’opzione dei 4 giorni, pagati come 5. La settimana cortissima è allo studio anche in Spagna, Usa e in Scozia dove sono stati stanziati 10 milioni di sterline per sostenere le aziende pronte a verificare i benefici della riduzione. Persino in Giappone, il Paese dove c’è un termine (karoshi) per indicare il decesso per troppo lavoro, si offre la possibilità della settimana di 4 giorni. Nell’agosto del 2019 Microsoft chiuse gli uffici della sede di Tokyo il venerdì scoprendo che la produttività era aumentata del 40% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, con una diminuzione dei costi fissi, a partire dal -23% di spese di energia elettrica. Secondo quanto riferisce <CF201>Forbes</CF>, «per il 67% dei membri della Generazione Z, cioè i nati dopo il 1995, la settimana corta potrebbe essere decisiva nella scelta di un posto di lavoro». Quanto ai casi di studio Islanda e Microsoft-Tokyo c’è però da fare attenzione all’effetto Hawthorne: sapersi protagonisti di un esperimento influisce sul comportamento e la consapevolezza di essere osservati e studiati potrebbe incidere sui livelli di produttività. Così un servizio di Matteo Novarini per Forbes riferisce che la riduzione dei turni a 5 ore s’è rivelata un fiasco per l’azienda californiana Tower Paddle Boards. O meglio, tutto ha funzionato perfettamente all’inizio, poi gli impiegati si sono rilassati più del dovuto dimenticando la cultura da start up. A Göteborg in una residenza per anziani si è optato per 6 ore al giorno per i dipendenti: la felicità di questi ultimi ha però comportato un esborso di 1,3 milioni di euro per assumere i collaboratori necessari a garantire i turni all’improvviso scoperti. In generale, la riduzione oraria può più facilmente essere applicata nelle grandi aziende, ma difficilmente nelle piccole: «una società con centinaia di migliaia di dipendenti ha le risorse per coprire l’assenza dall’ufficio di parte del personale. In aziende in cui i dipendenti sono già sovraccarichi, potrebbero non restare abbastanza persone per svolgere i compiti indispensabili».

Cosa accade in Italia?

La pandemia ha sparigliato le carte anche in molti uffici e aziende italiani. Stando ai dati del Ministero del Lavoro, fra aprile e novembre i lavoratori che hanno deciso di licenziarsi sono aumentati del 23,2% rispetto allo stesso periodo del 2019.Il piccolo esodo ha spinto l’Aidp (Associazione per la direzione del personale) a condurre un’indagine che ha coinvolto un campione di 600 aziende. Gli esiti? Il 60% delle imprese è potenzialmente interessata alla fuga di massa dei dipendenti e l’impennata di richieste di licenziamento ha colto di sorpresa il 75% delle imprese. Sette dimissionari su dieci hanno fra i 26 e i 35 anni (seguiti dalla fascia dei 36-45enni), orbitano nel mondo impiegatizio (l’82%) e risiedono nelle regioni del Nord Italia (il 79%). Cosa li spinge a licenziarsi? La prospettiva di una ripresa del mercato (così il 48% degli intervistati), la speranza di imbattersi in condizioni economiche più favorevoli (47%), l’aspirazione a trovare un maggiore equilibrio fra esigenze aziendali e private (41%), l’idea di incidere di più sulla propria carriera (il 38%). Ma una lettera di dimissioni su quattro è dettata dalla volontà di dare un nuovo senso alla propria vita. E che quel che più conta il tutto accade senza avere un piano B.Quanto alle aziende i loro piani sono di sostituire i dipendenti fuoriusciti con altre assunzioni (55%), altre invece hanno in programma di riorganizzare i processi produttivi (25%). Per il 57% dei capi del personale censiti dall’indagine, il fenomeno è la dimostrazione di quanto stia cambiando la percezione del senso del lavoro, per il 30%, invece, a incidere su queste scelte sono i cambiamenti del mercato del lavoro.

Anna Franini
Anna Franini
Anna Franini, giornalista di Forbes e il Giornale. Scrive storie di Leadership, Imprenditoria, Innovazione. Intervista fondatori di aziende miliardarie, Premi Nobel, Breakthrough, Academy Awards, Pulitzer, Pritzker.
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