Niccolò BRANCA’

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La famiglia di Niccolò Branca dal 1845 produce il mitico Fernet: “Per me l’azienda è un organismo vivente. La cosa che amo di più? Curiosare”

È un percorso olfattivo, un tuffo in un mix di spezie da quattro continenti, quello che conduce all’ufficio di Niccolò Branca, presidente e amministratore delegato del Gruppo Branca International Spa, holding con società in Italia e Argentina, leader nella produzione e commercializzazione di spirits. E’ il pro-pro-pro nipote (incarna la quinta generazione) di Bernardino Branca: il farmacista che nel 1845 creò la formula tutt’ora segretissima del Fernet-Branca.

Le generazioni successive hanno allargato il portafoglio dei prodotti, acquisendo anche nuovi marchi, hanno promosso operazioni di diversificazione, anzitutto nell’immobiliare commerciale, culturale, tenute agricole. Il brand è sempre stato in prima linea quanto a comunicazione e marketing. Subito, in azienda si intuì l’importanza di dotarsi di un logo: l’aquila che trattiene una bottiglia sorvolando il globo terraqueo, da dove provengono le erbe e dove finiscono gli spirits. Poi campagne pubblicitarie intelligenti e all’avanguardia, come quelle che all’alba del Novecento sdoganarono figure di donne forti, belle, indipendenti, ribelli ma con classe: donne che coniugano il focolare domestico con un buon bicchiere di amaro.

Nella famiglia Branca s’è sempre osato. Osa anche Niccolò, l’ultimo rampollo di casa. Lo fa con una forza tranquilla. Ci vuole del coraggio a mettere a nudo – come ha fatto lui – le proprie fragilità, dubbi, il lato più riposto dell’anima. Cosa non facile in generale, e particolarmente ardua se stai ai posti di comando. Niccolò Branca lo ha messo nero su bianco, firmando libri i cui titoli smentiscono l’identikit del management aggressivo e imperativo. Si va da «Per fare un manager ci vuole un fiore» al recente «Ritorno al Cuore», libri che esaltano l’economia della consapevolezza, in nome di un’idea d’azienda dove il profitto e la competitività sono essenziali, e così pure una leadership forte, ma capace di fare un business etico e sostenibile. I principi olistici applicati all’impresa, l’introduzione di un codice etico, del bilancio ambientale, dell’Organismo di Vigilanza di controllo interno hanno fatto di Branca un caso di studio.

Cosa l’ha spinta a scrivere «Ritorno al cuore»?

«Dopo l’uscita del primo libro, cui sono seguite altre due edizioni, molte persone hanno continuato a pormi interrogativi in tema di consapevolezza e meditazione. La cosa mi ha spinto ad approfondire ancora di più questi temi e a mettere per iscritto le riflessioni che comunque facevo ad alta voce. Così è nato il mio ultimo libro. L’obiettivo rimane quello di offrire spunti di riflessione, non certo verità».

Riflessioni che sembrano maturare nel corso di passeggiate, di immersioni nella natura

«Sì, mi piace molto passeggiare. La cosa strana è che vi sono corsi per camminare sul fuoco, e capita che non sappiamo camminare in campagna. Perché le passeggiate sono presenza pura, solo così ridanno energia».

Cosa vuol dire presenza pura?

«Vuol dire essere lì senza portarsi dietro preoccupazioni, essere con noi stessi, quindi vivere in quel momento, assaporare il fruscio del vento, il passaggio degli uccelli, i suoni della natura. Vuol dire essere nella realtà aldilà dei condizionamenti. Alla meditazione diamo connotati di vario tipo, io credo che equivalga all’essere presenti e consapevoli. Molte persone vivono secondo una mente dualistica, scindono determinati aspetti, separano il corpo dallo spirito, la materia dal pensiero. In realtà non c’è scissione, siamo noi che la creiamo».

Quindi secondo lei meditazione e vita attiva non sono due opposti.

«La meditazione è una disciplina che applico da oltre vent’anni, la considero una sorta di allenamento, ma dopo l’allenamento deve esserci la gara. Vuol dire che nella quotidianità devo mettere in pratica quello che la meditazione mi ha consentito di comprendere di me e del mondo».

Che rapporto ha col tempo? Difficile capire come e dove trovi il tempo per passeggiare, scrivere libri, meditare, lei che è a capo di una holding da 318 milioni di fatturato ed è presente in più di 160 Paesi.

«Il tempo lo si trova facendo delle rinunce. Se uno vuole, può far sì che non manchi mai. Cosa non semplice, ma possibile. Se io son qui, nella consapevolezza, sono nell’essenza di me stesso. Alimento questa presenza, sono nella vita. Si dice spesso che manca il tempo per ma se porti presenza in tutto ciò che fai, il tempo non manca più».

Quanto è importante scrivere?

«E’ imprescindibile. La mia casa è sommersa da una moltitudine di taccuini. Ho bisogno di scrivere, così come mi piace dipingere. Capita che dipinga per sei mesi con regolarità, e poi segua un vuoto di cinque anni».

Ricorda Svevo: l’imprenditore che vede nella scrittura una sorta di igiene mentale.

«Anche da ragazzo scrivevo. Quel che conta è che ognuno di noi trovi la propria via per esprimersi, per far uscire quello che ha dentro: per uno è fare un buon piatto di pastasciutta, per un altro scrivere».

Che studente è stato?

«Molto vivace. Non ero quel che si suol dire studente modello. Però ho incontrato alcuni professori particolarmente bravi che sono riusciti a tirare fuori il meglio di me. Ricordo in particolare l’insegnante di filosofia: rimanevamo tutti a bocca aperta, nessuno chiacchierava, tutti seguivamo incantati le sue lezioni. Con il senno di poi, ho capito questo, ho compreso quanto sia importante la figura del docente. Credo che la scuola dovrebbe insegnare ai ragazzi a conoscersi meglio, a interpretare le emozioni perturbanti, le afflizioni mentali. Invidia, rabbia, piacere, desiderio, emotività, odio: tutto questo è dentro di noi. Ma se non si insegna a osservare, a vedere come i sensi e la mente funzionano, finiamo per essere agiti anziché essere noi i registi della nostra vita. Io questo percorso l’ho avviato in là con gli anni, sarebbe opportuno avviarlo quanto prima».

A quanti anni? E dove l’ha portato?

«A 30 anni. Ho iniziato a capire che abbiamo dentro di noi tante ricchezze da capitalizzare. C’è tutto quello che ci deve essere, dobbiamo solo divenire consapevoli. Faccio un esempio. Se dentro di me c’è un potenziale goloso, ma io ne sono consapevole, posso orientare l’attitudine in senso positivo. Posso trasformarmi in affamato di sapere, per dire. Se mi guardo dentro e vedo i conflitti che mi dominano, cerco di superarli. Come posso superare i conflitti esterni se rimangono irrisolti quelli dentro di me? Conosco persone che parlano di pace e sono in conflitto con la propria famiglia. Essere consapevoli è più importante che mai. Il mondo comporterà sfide sempre più ardue e per superarle dovremo poter attingere alla saggezza. Dobbiamo essere liberi da condizionamenti per poter dare delle risposte».

Lei da quali condizionamenti s’è liberato?

«Da condizionamenti culturali e familiari. Alcune cose poi le ho riprese, però coscientemente. Sono tante le proiezioni di altre persone che hanno inciso su di noi. Per esempio, a un certo punto mi resi conto che ripete gesti di papà e mamma. Il fatto di osservarsi e di comprendere tutto questo fa sì che magari torneremo a fare quella battuta o gesto: però in modo consapevole, per nostra scelta. Quante volte agiamo solo in risposta a sensi di colpa. Bisogna liberarsi dai condizionamenti e decidere della propria vita, senza pensare di far piacere o dispiacere a qualcuno, e senza mai però recare danno altrimenti saremmo egoisti. Dovremmo assecondare le nostre scelte».

Quanto è libero di scegliere chi si ritrova a nascere in una famiglia di imprenditori da generazioni? Con lei si tocca quota cinque

«Non bisogna pretendere che il figlio prenda le redini dell’azienda. Se ci sono figli in gamba e attratti dalla tipologia di lavoro, bene, altrimenti è opportuno rivolgersi a manager».

E i figli?

«Ai figli si insegna come controllare e indirizzare. Devono essere i custodi, fare in modo che la filosofia aziendale non venga sconvolta. Ricordo una persona che aveva lavorato con me per quarant’anni anni. Mi confessò di essersi trovata bene, ma che il suo sogno sarebbe stato quello di fare il parrucchiere. Quanti seguono le ambizioni dei genitori sacrificando le proprie. Una cosa è indirizzare, l’altra è obbligare a percorrere strade non in linea con la propria persona».

All’ingresso dell’azienda si trova il manifesto del Gruppo Branca. Due le parole chiave: «Innovare serbando». Cosa serbate?

«I valori della nostra azienda. Il fatto di mettere al centro la persona, vista non come mezzo ma come fine per raggiungere obiettivi. Sono centrali il fare e la motivazione intesa come molla del fare. Il mio avo Bernardino iniziò questa avventura perché voleva creare un prodotto che potesse offrire benefici ad altre persone. Io stesso agisco pensando che ogni mia azione deve creare beneficio per l’azienda. Da noi ci si aspetta prodotti d’eccellenza. Siamo attenti alla qualità del prodotto, nella scelta delle erbe siamo scrupolosissimi, abbiamo un centro di ricerca ad hoc per questo».

Tutto secondo tradizione

«Ancora conserviamo un patrimonio di botti straordinario all’interno del quale abbiamo una botte di 120 anni da cui nasce un prodotto speciale, pur a costi altissimi, ma fa parte del nostro serbare. Puntiamo su lunghi invecchiamenti in botti di rovere per lo Stravecchio come per il Fernet-Branca, cosa che comporta un alto costo ma assicura la qualità, elevandone la complessità gustativa. Stesso discorso per il Caffè Borghetti, che viene realizzato mantenendo intatta la metodologia tradizionale. In sintesi, manteniamo l’artigianalità italiana, perché le cose fatte all’italiana per noi equivalgono a successi e risultati».

Dove, invece, andate a innovare?

«A livello manageriale, nella modalità di conduzione delle riunioni. Innovati i sistemi informativi, abbiamo introdotto un codice etico, il bilancio ambientale, l’organismo di vigilanza».

Cosa è per lei l’azienda?

«La vivo come un organismo vivente che produce e crea benessere non solo per se stessa ma anche per i dipendenti, i fornitori, per la città di Milano, per l’Italia».

Quale ritiene essere il suo tratto distintivo?

«In me c’è sempre stato il senso della scoperta. Già da bambino avvertivo la spinta ad andare a cercare, curiosare, toccare con mano, verificare, non dare subito tutto per certo. Ho sempre amato costruire».

Quando si guarda dentro e magari verte qualche errore o mancanza, come reagisce?

«Capita spesso che arrivato a sera dica a me stesso che avrei potuto fare in altro modo, vedo che magari m’è sfuggito uno scatto di rabbia. Allora cerco di osservare questa energia negativa usandola per cambiare aspetti, mi concentro su quella positiva e la concimo ancora di più. Magari dopo uno scatto di rabbia si è anche più compassionevoli con gli altri, più comprensivi, li vediamo sotto una luce diversa: non come persone, ma individui in preda – in quel momento – ad afflizioni e dunque forieri di certe reazioni, reazioni che abbiamo provato noi stessi. Prima di giudicare, comprendiamo. Questo non vuol dire accettare, ma discriminare senza condannare preventivamente. Credo fermamente nella ricerca dell’equilibrio, nella sintesi».

Chi sono le persone che in questa fase storica sono fonte di ispirazione?

«Il Papa e il Dalai Lama. In visita in Birmania, Papa Francesco ha indicato come modelli di riferimento Buddha e San Francesco: già questo dice tutto. Trovo papa Francesco una persona di grande spessore e di grande aiuto per il nostro Paese data la fase che sta attraversando. Dice cose che magari non fa piacere sentire, ma si rifà al messaggio vero di Gesù Cristo. E il Dalai Lama che sprona alla compassione, tolleranza, all’uscita dei conflitti per arrivare a un’etica secolare: etica che trova le religioni concordi, aldilà delle divisioni e dei propri condizionamenti, per un nuovo umanesimo».

Anna Franini
Anna Franini
Anna Franini, giornalista di Forbes e il Giornale. Scrive storie di Leadership, Imprenditoria, Innovazione. Intervista fondatori di aziende miliardarie, Premi Nobel, Breakthrough, Academy Awards, Pulitzer, Pritzker.
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