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Scuola italiana: fuori tempo e fuori mercato

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La scuola italiana è ferma al millennio scorso. Trasmissiva e scarsamente interattiva, con tanta teoria e poca pratica, per nulla centrata sullo studente.

Nella scuola italiana sono arrivate le lim (lavagne interattive multimediali), i libri digitali, qualche computer, gli iPad, fioccano termini in inglese (flipped classroom, word cloud…) a ribadire il concetto dell’«Ahi serva Italia…». Spesso operazioni cosmetiche che non riescono a cambiare il volto e l’anima della scuola italiana: per metodologia, contenuti e visione in molti casi pare ferma al millennio scorso. Trasmissiva e scarsamente interattiva, con tanta teoria e poca pratica, per nulla centrata sullo studente.
Il malfunzionamento è certificato dai numeri e dai risultati.
Dall’ultimo rapporto Istat sul benessere equo sostenibile (Bes) risulta che solo il 62,6% degli Italiani fra i 25 e i 64 anni ha un diploma superiore, contro la media europea del 78,7%. Tra gli adulti di 30-34 anni il 27,9% ha un titolo universitario contro la media europea del 42,1%.
E soprattutto, con la pandemia è salita al 23,9 la percentuale di giovani tra i 15 e i 29 anni che né studiano né lavorano (NEET). E ancora, l’Invalsi fotografa un’Italia con enormi disparità tra Nord e Sud, fra aree geografiche e istituti, con un tredicenne su tre che non comprende un testo di italiano, e tra quanti arrivano in quinta superiore solo il 65,4% raggiunge risultati almeno adeguati in italiano, va ancor peggio in matematica e inglese.
Eppure, nel marasma, non mancano le buone notizie.
Al comparto Istruzione e Ricerca sono destinati quasi 32 miliardi di euro del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza finanziato dall’Europa. Ma una cosa è chiara: l’investimento produrrà frutti solo se la macchina scolastica verrà profondamente revisionata. E di fatto, nell’annunciare il flusso miliardario, Mario Draghi ha sottolineato come istruzione e ricerca siano fattori indispensabili «per un’economia basata sulla conoscenza».
Disperata confusione
È questo il punto che si salda tra l’altro con l’analisi condotta da Giuseppe De Rita – fondatore del Censis – nel saggio «Una disperata confusione», un testo finito anche sul tavolo del neo-ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi. «Dobbiamo rimuovere la confusione per una scuola la cui qualità e reputazione rappresentino quella del Paese», dice il ministro invitando a riflettere sul testo di De Rita. «Molti dei guai» della scuola d’oggi risalgono alle scelte fatte negli anni ’50-’60, anni in cui l’idea «di una scolarizzazione ad oltranza indipendente dai modi e tempi di sviluppo del Paese vinse su quella di un’offerta formativa legata alla domanda di competenze richieste dal sistema economico-sociale» (De Rita). Scelta che tutto sommato funzionò fino agli anni ’80. Il resto è storia: «di un sistema autoreferenziale e autopropulsivo che da tempo non supporta lo sviluppo della nostra società ed economia. Nella scuola i giovani avvertono la bassa funzionalità della scuola alle proprie attese e ai propri bisogni di lavoro, di professionalità e di promozione sociale. La domanda “a che serve?” rimbalza anche e specialmente nel mondo delle imprese». Che si organizzano in proprio istituendo scuole, si va dalla Guido Carli di Brescia, lanciata dalla locale Confindustria, al Liceo Steam di Bologna di Confindustria Emilia.
Esempi virtuosi
Nella solita Italia a macchia di leopardo, fatta di picchi e cadute non mancano casi di studenti, docenti e istituti virtuosi. Prendiamo il «Martino Martini» di Mezzolombardo e la sua dirigente Tiziana Rossi: vincente per come applica il principio dell’autonomia scolastica, in particolare per quanto riguarda la voce «Ricerca e Sviluppo». Al MM la didattica è organizzata per problemi, progetti e competenze. E fra gli ultimi progetti tradotti in realtà, un velivolo ultraleggero costruito dai ragazzi, rodato in febbraio ed ora venduto a 45 mila euro. Da dove viene tanto piglio innovativo? E come lo si nutre? «All’inizio invitavamo guru della didattica innovativa ed esperti di tecnologia avanzata. Poi i docenti hanno trovato la propria strada ed ora applichiamo la formula di un coinvolgimento progressivo degli insegnanti che formano i colleghi condividendo esperienze e visione», spiega Rossi, che comunque, come tutti, è costretta a scontrarsi con le inefficienze del sistema nazionale. «Dobbiamo ripartire dal capitale umano, dagli insegnanti. Il sistema di reclutamento va totalmente revisionato, i concorsi sono aberranti – spiega – . Dobbiamo lottare urgentemente contro la dispersione scolastica. L’Invalsi ci dice che abbiamo studenti che a 19 anni hanno competenze da terza media: come possiamo recuperare tutto questo?».
Dati, dati, dati!
A proposito di Invalsi, presi a bersaglio dalla peggior scuola, e della necessità di basarsi su dati per rettificare i percorsi formativi, alla MM come si procede? «Oltre alle consuete azioni di valutazione quantitative e qualitative di tutto quello che viene fatto, alludo a questionari Google e interviste, da due anni abbiamo una squadra di docenti che fa orientamento professionale e inserimento lavorativo occupandosi anche del post diploma: e questo ci dà una misura della qualità di quel che facciamo come scuola capace di orientare a opportune scelte di studio e di lavoro. Come tutti, poi, compiliamo RAV, i rapporti di autovalutazione, PDM, i cosiddetti piani di miglioramento…, ma detto con tutta franchezza quelle sono carte».
A resistere sono anche alcuni istituti storici soprattutto in città di provincia: pubblici ma al tempo stesso elitari poiché meritocratici. È il caso del liceo Sarpi di Bergamo per accedere al quale è gradita la lode in uscita dalle medie, e comunque è il 9 il punto di partenza. Selezione darwiniana anche tra i docenti in base al sano principio dell’accoglienza: del merito in questo caso. Del resto, il fattore che più incide sul successo di una scuola o azienda sta nel chi ti porti a bordo, il capitale umano.
Intorno a tutto questo fioriscono operazioni tecnologiche a supporto della scuola.
È un caso di successo redooc.com, la piattaforma di apprendimento dall’infanzia all’università basata su strategie e metodologie aggiornate. La piattaforma digitale ha superato il mezzo milione di registrazioni, sull’onda di 2,5 milioni di lezioni, 15milioni di esercizi svolti, 5mila video lezioni. «Più di trecento scuole ci utilizzano in modo ufficiale, a queste si aggiungono quelle che ci seguono tramite i singoli docenti», spiega Chiara Burberi, la fondatrice. Burberi solleva un interrogativo provocatorio. «Gli oltre 800mila docenti fanno didattica nella più completa libertà. Viva la libertà. Però bisognerebbe poter misurare gli esiti di questo approccio, altrimenti è anarchia. Come è possibile che i nostri ragazzi dopo otto anni di lezioni di inglese ancora facciano fatica ad esprimersi? C’è qualcosa che non va». Appunto.
Un’altra risposta concreta al problema si chiama p2plearning.it, ed è una piattaforma realizzata in piena pandemia da studenti impegnati a produrre contenuti per i coetanei, si va da videolezioni a slide riassuntive, lezioni fra pari. E pure competizioni: termine che la nostra scuola aborrisce perché preferisce livellare: verso il basso ovviamente.

Per i veri salti servono le leve finanziarie.

Vale a dire: le buone idee non campano senza investimenti. In H Farm, incubatore di startup con sede a Treviso, sta per decollare MY SCHOOL, progetto realizzato da una squadra di insegnanti, psicologi, informatici e 3D designer. È una «scuola ibrida», come la definiscono i fondatori: le lezioni sono fruibili sia live, sia on demand, con una biblioteca di contenuti sempre disponibili su diversi canali. Fra l’altro si sfruttano realtà virtuale e aumentata. Un esempio? Sarà possibile studiare il sistema solare mettendo in ordine i pianeti sul proprio banco.

 

ENTRO IL 2026: UN MILIONE DI POSTI DI LAVORO IN PIU’  

Anche grazie alla  spinta del NextGeneration, il fondo approvato nel luglio del 2020 dal Consiglio europeo per sostenere l’economia, in Italia si prevedono un milione di posti di lavoro in più da qui al 2026. Bisogna però attrezzarsi, formarsi, colmare il vuoto di una scuola scollegata dalla realtà socio-economica del Paese. Nove lavori su dieci richiederanno competenze digitali che la scuola non fornisce, e già ora viviamo la situazione paradossale di un’alta disoccupazione giovanile a fronte di aziende che faticano a trovare adeguate professionalità.
Sul tema è netta  Francesca Devescovi, Ceo di DigitAlly, impresa nata da una costola di Microsoft per accelerare l’entrata dei giovani nel mondo del lavoro formando all’uso di strumenti digitali. «La tendenza è del tutto evidente: si chiedono sempre di più specialisti nell’analisi dei dati digitali, digital marketing, project management e e-commerce. Nel mondo digitale tutto è misurabile per cui ovunque è richiesto un approccio guidato dai dati.  Per questo   trovo assurdo che le università italiane non insegnino  come si usano  Excel o Google Analytics, che invece sono la base di qualsiasi lavoro che si andrà a fare».

«Per tanti colossi aziendali, Google in testa, il saper fare vince sul curriculum», ricorda Andrea Zanotti, Presidente dell’Opificio Golinelli, anche lui critico sul valore effettivo del tradizionale pezzo di carta. È una realtà ormai assodata: il candidato è assunto o respinto in rapporto a cosa sa o non sa fare, la pratica vince sulla teoria. E nell’Opificio, centro bolognese che unisce sotto uno stesso tetto attività di  formazione,  trasferimento tecnologico, e incubazione di attività imprenditoriali, si lavora proprio su questo. Stesso discorso alla 42 Roma Luiss, scuola di programmazione legata all’omonima università romana  e per la quale non si richiedono titoli ma piuttosto  due requisiti: passare i test di logica e avere attitudine per il digitale.

COSA DICONO DI NOI ? 

Abbiamo chiesto a  Italiani numeri uno nei rispettivi campi d’azione un parere sulla scuola italiana. Abbiamo coinvolto anche due rappresentanti della GenZ

LUCIANO FLORIDI. Professore di Filosofia ed Etica dell’Informazione nelle università  di Oxford e Bologna 

“La scuola italiana è lontana dall’attualità,  induce a pensare che se sai chi è Leopardi va bene, e pazienza se ignori chi sia il matematico Ernst Schröder o lo spread. E poi, sfatiamo un mito. Si dice che il Liceo classico sia formativo, non può esserlo nella misura in cui non contano granché la matematica e la biologia. Subito andrebbe insegnato l’amore per tutto il sapere”.

FRANCESCA GINO. Professore alla  Harvard Business School 

“Ho avuto la fortuna di trovare tanti docenti capaci ad accendere la curiosità stimolando il senso della scoperta. Nel mondo americano la pressione è tale che non c’è spazio per questo tipo di approccio. Però confesso che da studentessa non avevo percepito che le scienze continuano ad evolversi, così come non mi era chiaro che se uno è interessato può contribuire a tale evoluzione. Negli Usa la conoscenza non viene percepita come un qualcosa che ricevi passivamente, ti spronano semmai a dare il tuo contributo”.

ALBERTO DALMASSO. Fondatore di Satispay

“Trovo due pecche nella scuola italiana. Le scuole superiori dovrebbero durare non più di quattro anni altrimenti per evitare di confrontarci immancabilmente con colleghi stranieri più giovani e con più esperienza. Altra cosa. Bisognerebbe instillare più fiducia nelle proprie capacità, si tende a passare il concetto che devi ringraziare il cielo se avrai uno stage tra l’altro gratuito”. 

CLAUDIO MARAZZINI. Presidente dell’Accademia della Crusca

“Oggi si vorrebbe affidare alla scuola la soluzione di ogni tipo di problema, dall’educazione sessuale, alla lotta alla droga, alla buona creanza o che so io. Troppe cose, troppi compiti, e spesso confusi e nebulosi. La didattica non può essere annegata nell’universo della socializzazione globale”.

LORENZO RUSSOTTO. Ultimo anno al Liceo Scientifico “Edouard Bérard” di Aosta. 

Ha appena superato i test per entrare in otto università americane e inglesi, tra cui Harvard (che ha scelto) quindi Yale, Imperial College…

“Le conoscenze e competenze accumulate al liceo hanno pesato per il 70% – ci dice – sull’esito finale dei test. Ero ben preparato in matematica e fisica” confermando che non mancano i docenti virtuosi. Cosa non ha apprezzato del percorso di studi italiano? “La  poca esperienza pratica in laboratorio”.

Matteo Mazzolari, 26 anni. Un piede nella Silicon Valley e a Cremona dove ha lanciato la start up Fees

“Il divario tra studio e mondo lavorativo è immenso. Progetti di gruppo, laboratori e tirocini sono affrontati troppo superficialmente sia dagli studenti sia dalle stesse scuole e università, vengono letti come obblighi burocratici anziché momenti di produttività.  C’è troppa teoria. Semplificando: è più facile capire come andare in bicicletta seguendo i giusti consigli e pedalando anziché studiandone anticipatamente ed approfonditamente la cinematica. La pratica non sostituisce la teoria, ma si deve integrare con maggiore efficienza. Magari così eviteremmo di avere tutti quei laureati con lode però disoccupati oltre che non educati al problem solving”

Anna Franini
Anna Franini
Anna Franini, giornalista di Forbes e il Giornale. Scrive storie di Leadership, Imprenditoria, Innovazione. Intervista fondatori di aziende miliardarie, Premi Nobel, Breakthrough, Academy Awards, Pulitzer, Pritzker.
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