Mi sono ricomprato l’azienda” racconta il costruttore di yacht fra i numeri uno al mondo. “Che guaio la decrescita felice dei 5 Stelle” –Download PDF
Durante gli anni bui della nautica, Sanlorenzo evitò licenziamenti e cassa integrazione. Una prova di coraggio e resistenza.
Come ricorda quel periodo?
«Sono stati anni difficili, di grande lavoro e tensione emotiva, di preoccupazioni continue. Si provava sofferenza nel vedere negli occhi dei dipendenti il terrore di perdere il lavoro. Anche perché a La Spezia la sofferenza è stata particolare. Lì s’è sempre vissuto di Stato, si va dall’Arsenale, alla Marina, Fincantieri, tutte realtà che hanno un po’ ucciso le capacità imprenditoriali. Noi siamo stati l’unico cantiere nautico al mondo a non avere licenziato una sola persona, nessuna cassa integrazione, abbiamo mantenuto il fatturato e fatto aumenti di capitale da me in prima persona e poi con Fondi».
Che ora s’è ricomprato per cui Sanlorenzo è della famiglia Perotti al 96%. Perché ha ceduto il 4% al management?
«Per la verità vorrei arrivare a un 6%, aumentando ancora di più il coinvolgimento dei manager. Quando ero in Azimut da amministratore delegato avevo acquistato delle quote, cosa che mi permise di lavorare con un forte senso di appartenenza, da imprenditore. Questo è un mestiere difficile quindi o lo fai con passione e dedizione oppure è meglio lasciar perdere. Coinvolgere i manager fa bene a loro, a me e all’azienda».
Lei ha percorso la Via della seta al contrario ricomprandosi il 23% delle azioni dalla cinese Sundiro Holding.
«Mi piace scherzare dicendo che il mio è il caso del padrone che morde il cane e non viceversa. I broker internazionali hanno tributato un forte riconoscimento all’operazione. È piaciuto che un italiano si ricomprasse l’azienda dai cinesi. Un segno in controtendenza».
Pare che voglia avere sempre tutto sotto controllo. È vero che per la festa dei sessant’anni di Sanlorenzo si è persino occupato della sistemazione ai tavoli dei 600 invitati?
«Vero. Ma ho poi pagato a duro prezzo tutti questi sforzi. Per due mesi ho sofferto di sciatica».
«In una grande azienda chi comanda è solo», diceva Sergio Marchionne. Capita anche a lei?
«Vero. È capitato molte volte che mi sentissi solo. Per esempio proponendo prodotti che non convincono e sollevano scetticismo».
Come la barca asimmetrica, la prima al mondo?
«E non solo. Del resto, quando lavori con designer che offrono un modo diverso di vedere le cose, devi avere fiducia in loro. Spesso i miei colleghi si oppongono, si lamentano che quella barca non la venderemo mai. Ma io la porto al Salone, tutti ne parlano e quindi avrò un ritorno».
In sintesi: è un decisionista. Ma quanto è frustrante prendere decisioni al volo in un’Italia che ha i ritmi di una lumaca?
«Guardi. Non me ne parli».
Parliamone invece. I dolori dell’imprenditore nell’Italia del 2019 sono…
«Partiamo dal concetto di decrescita felice avanzato dai Cinque Stelle. Facciamo la decrescita? Bene, dobbiamo però sapere che l’economia non è locale, se ci sono Paesi come Cina o Usa che corrono a doppia velocità mentre io faccio la decrescita felice, devo rendermi conto che avrò delle conseguenze. Vogliamo veramente quello? A questo punto è molto probabile che i nostri nipoti dovranno essere al servizio dei cinesi che anziché decrescere felicemente si sono messi a correre e prima o poi si compreranno l’Italia e magari l’Europa. Una cosa è promuovere nuove attività per cui si evita di fare aziende che producano la plastica che poi finisce nelle pance delle balene, altra cosa è la decrescita. È inutile che ci mettiamo a pulire la plastica dagli oceani e continuiamo a usare plastica tutto il giorno. Che senso ha pulire 10 e produrre 100?».
A proposito di riciclo e degli elevati costi di rottamazione delle barche…
«Questo è un tema spinoso. Dal 1972 s’è iniziato a costruire barche in vetroresina, e mentre un’auto dopo i 10 o 15 anni viene rottamata, le barche rimangono lì, come relitti, perché costa meno tenerle in vita piuttosto che eliminarle. Con il Politecnico abbiamo appena firmato un accordo per sviluppare tecniche di riciclo ed eliminazione delle barche. L’idea è quella di avere ricavi per far fronte ai costi».
Com’è che un uomo cresciuto ai piedi delle montagne vive di mare?
«Non ero ancora laureato in Economia e commercio quando iniziai a lavorare in Azimut dove rimasi per 23 anni. E comunque sono sempre andato al mare, fin da ragazzo. Negli ultimi vent’anni non c’è stata una vacanze che non sia stata in barca, assieme ai miei figli, Cecilia e Cesare, e mia moglie».
È vero che ha pure vissuto su una barca?
«Sì, per dieci anni. Comprata l’azienda, iniziai a cercare casa. Ma non trovavo niente che mi soddisfacesse. Finalmente la trovai ma doveva essere ristrutturata. E il tempo passava».
Cosa si perde chi non va in barca?
«Si perde il senso di libertà, il contatto con la natura, lo stare con amici tranquillamente, in pantaloncini. Non devi fare check in-out, sposti la tua casa con comodità e in tempi brevi».
Chi non comprerà mai una Sanlorenzo?
«Chi ama l’opulenza e usa la barca per ostentare ricchezza. Il nostro è un cliente elegante, gode del prodotto perché è fatto bene, artigianalmente».
Accennava ai figli. Presto saranno loro al timone dell’azienda?
«Cesare ha 23 anni, studia Economia e forse verrà in azienda. Ora è in partenza per Hong Kong, farà sei mesi lì per vedere da vicino questo mondo orientale in grande crescita. Cecilia è architetto, ha 26 anni, e ama il suo lavoro, si occupa anche di scenografia per teatro e cinema. Con lei sto valutando di avviare una Fondazione filantropica».
Da che tipo di famiglia proviene?
«Di artigiani. Papà costruiva lampadari. Andava in Veneto a comprare il vetro. Poi costruiva tutto a Torino, pure le vendite erano circoscritte al Piemonte. Lavorava con mamma, zio e zia. Era una piccolissima azienda familiare».
Lei intanto studiava Economia: con profitto?
«Fino ai 16 anni ho studiato molto poco. Poi mi innamorai di una ragazza più grande di me che mi fece soffrire. E così maturai. Mi sono diplomato bene e laureato con 110 e lode. Lavoravo e studiavo».
La sofferenza serve.
«Molto. Anzi auguro a tutti un po’ di sofferenza».
È parsimonioso come si usa in Piemonte?
«Sono accorto nello spendere, lo spreco mi dà fastidio, non voglio bruciare risorse e ricchezza. Non faccio questo lavoro per denaro, ma per passione. Non mi interessa avere tanto denaro, mi basta quella quantità che possa soddisfare i miei desideri e mi permetta di aiutare le persone care, di occuparmi della loro salute. Preferisco fare che ricevere un regalo. E comunque sono dell’idea che l’azienda deve essere ricca e la famiglia tutto sommato povera affinché il denaro venga reinvestito per il futuro mio, dei miei figli, dei dipendenti, per l’azienda».
Il luogo del cuore?
«Champlas Séguin, a 8 km da Sestriere. Lì ho una casetta. È un piccolo borgo, non c’è nulla, nemmeno un negozio, regna la tranquillità assoluta. Sestriere non mi piace poiché è stata costruita troppo. Champlas è molto naturale, genuino, e siamo vicini alle piste della Via Lattea per cui comodo».
Avete un parterre di clienti straricchi, pronti a spendere dai 4.5 milioni in su. La barca più costosa che avete venduto?
«Non glielo dico».
50 milioni?
«Abbondantemente sopra».
Come è fatta la più costosa?
«È lunga 64 metri, 1.600 tonnellate di stazza. Quattro ponti. Si compra una barca più col cuore che con la testa».
Lei conosce l’aspetto più irrazionale degli armatori, persone che nella vita professionale supponiamo essere mediamente lucide e dure.
«Eh… lì c’è emotività pura. Poi certo, gli armatori spesso sono condizionati dalle mogli, perché talune vogliono la barca e li spingono all’acquisto. Altre, al contrario, non la vorrebbero proprio».
Ci può descrivere l’armatore tipo?
«Un uomo ricco, capace, che ha avuto successo negli affari. Ha già sperimentato almeno quattro barche prima di arrivare a noi, ha quindi una certa esperienza nel mondo della nautica. I nostri clienti sono per il 60% europei, 25% americani, 15% provengono dall’Asia Pacifica».
Spingono i mercati maturi…
«Proprio quelli crollati nel 2009 ma tornati in gran forza. Soffrono, invece, gli emergenti, quelli che anni fa salvarono la nautica della crisi. La Russia sta tornando però. Stiamo a vedere».
Grazie a Sanlorenzo, la nautica è entrata nel mondo del design. Lavorate con Dordoni, Citterio, Lissoni.
«Ma anche con Philippe Starck e ultimamente con Patricia Urquiola: a settembre variamo la prima barca nata con la sua collaborazione. Senza questo impulso le barche sarebbero rimaste a vent’anni fa, quando erano oggetto un po’ rétro».
Com’è arrivato al design?
«È stato fondamentale l’incontro con Sergio Buttiglieri che veniva da Driade. Lui conosceva tutti i designer e mi fece entrare in un mondo all’epoca piuttosto distante dalla nautica. E comunque Sanlorenzo ha sempre avuto cura del bello, del fatto bene e su misura, Così voleva anche il precedente proprietario, Giovanni Jannetti. Lui disdegnava i grandi numeri, in un anno faceva otto o dieci barche al massimo: un concetto non sbagliato quando si parla di lusso che appunto implica unicità, pochi numeri, e uno stile mai gridato. Quando ho acquisito il cantiere ho cercato di continuare questa tradizione pur innovando, inserendo nuovi prodotti. Jannetti aveva già 75 anni, bisognava rinnovare le linee».
Era Ad di Azimut, vi entrò che c’erano 25 dipendenti mentre all’uscita erano tremila. Contribuì a questa crescita, eppure puntò su Sanlorenzo: perché?
«Desideravo aprirmi a qualcosa di nuovo, pur rimanendo nella nautica. La barca mi è sempre piaciuta tanto. E in particolare Sanlorenzo, un marchio che cambiava barca non prima dei dieci anni, quindi dalla forte personalità. L’acquisto è nato da una scelta ponderata e mirata, tutt’altro che casuale».
Cosa ci dice della Sanlorenzo Academy?
«È una scuola che formerà diplomati e laureati nel settore nautico per poi inserirli nel mondo del lavoro. I corsi sono tenuti anche dai miei manager. Ci siamo impegnati ad assumere il 60% ragazzi che studiano nella Sanlorenzo».
Cosa insegnate anzitutto?
«Sia competenze tecniche e pratiche che soft skill. Inoculiamo il nostro stile, insegniamo cosa siano professionalità e puntualità».
Lei dove ha appreso tutto questo, anzitutto l’importanza della professionalità?
«Mi ha aiutato il fatto di essere torinese. Torino è una città dove si studia e lavora molto. Alle otto di sera non c’è più nessuno in giro perché alle 7 si è tutti in piedi. Poi ho visto mio padre lavorare tutta una vita, tutti i giorni fino a tardi e spesso anche sabato e domenica. Uno poi finisce per seguire le orme».