Mariss Jansons, uno dei più grandi direttori d’orchestra al mondo, è morto ieri per problemi di cuore. Si è spento a San Pietroburgo, la città dove si era trasferito tredicenne al seguito di papà Arvid, altra grande bacchetta. La mamma, cantante, lo partorì il 14 gennaio del 1943 in un nascondiglio di Riga per sfuggire alle persecuzione ebree. “Il nonno materno era morto in un ghetto. Alla fine degli anni Quaranta mia zia alloggiava da noi. Ricordo il giorno in cui tre agenti del KBG entrarono in casa chiedendo a mia zia di seguirli. Chiesi dove l’avrebbero portata. – Là, in fondo -, indicarono. Era la Siberia”, ci raccontò l’artista.
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Schivo e riservato come si usa nel profondo Nord, Mariss Jansons è stato a lungo la guida dell’Orchestra della Radio Bavarese, della Filarmonica di Oslo, della London Philharmonic, lavorò anche a Pittsburg e al Concertgebouw di Amsterdam. Era adorato dai Berliner e dai Wiener con i quali aveva firmato i concerti di capodanno del 2006 e del 2012.
Figlio di tanto padre, confessava che “dopo il trasferimento in Russia, due erano le difficoltà: la lingua russa e l’essere il figlio di Arvid Jansons. Per anni ho dovuto dimostrare che non avanzavo in virtù di un cognome importante”, ci spiegò. A 26 anni studiò con Herbert von Karajan, “per tre mesi, dalle nove del mattino alle 23. Aveva idee incredibili, mi viene da paragonarlo a un uccello: sempre in volo”. Andris Nelsons è stato l’ultimo allievo di Jansons, “da lui ho imparato a tener conto dell’aspetto psicologico del nostro lavoro – osserva – insisteva sulla necessità di instaurare con gli strumentisti una buona relazione umana”.
Jansons, russo d’adozione ma baltico convinto, quando la Lettonia entrò a far parte dell’Europa ebbe un sussulto patriota: “S’è meritato quest’ingresso. E’ un Paese di gente laboriosa”. Quanto agli anni sovietici, “riconosco che lo Stato sosteneva gli artisti di valore, quindi uno avvertiva di essere aiutato e protetto, però quello stesso Stato voleva controllare tutto, restringendo la capacità decisionale”.
Amava l’Italia, la osservava dalla casa di Locarno. “Adoro la lingua italiana, il cinema del neorealismo, il senso del bello così presente nel vostro dna”. E con quel sorriso franco ma contenuto, sentì di aggiungere: “Lo dico sinceramente”.