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Riccardo Di Stefano, presidente Confindustria Giovani Imprenditori, racconta le sfide dei giovani tricolore

Quanto è difficile per un giovane fare impresa in Italia? Quali sono i più grandi scogli da superare?  L’attitudine dei giovani al rischio d’impresa cambia a seconda del contesto culturale, economico e sociale in cui operano; ebbene, come viene percepito quello prospettato  dal terzo decennio del Duemila? Come mettere le ali al capitale umano di talento, forse gli imprenditori novelli, vista la consonanza anagrafica, hanno ricette particolari? Come vivono le frustrazioni del faticoso accesso al credito? Già di per sé un’impresa anche quando entrano in campo agenzie nazionali congegnate per favorire lo sviluppo dell’imprenditoria, gravate da una burocrazia dalle tempistiche non in linea con quelle dell’imprenditoria che – appunto – chiede celerità all’ennesima potenza.

Serie di domande che abbiamo girato alla punta istituzionale dell’ultima generazione di imprenditori italiani:  Riccardo Di Stefano, presidente di Confindustria Giovani Imprenditori. Per inciso, da noi si è considerati giovani imprenditori fino allo scadere dei 40 anni, soglia anagrafica che nei due colossi – Usa e Cina – si abbassa di un bel po’. E già questo è indicativo dello stacco che separa il vecchio dai “nuovi” continenti, le economie rampanti dalle stagnanti.

Partiamo dalle sfide che levano il sonno al giovane imprenditore italiano. Quale la più ardua?

Fare impresa in Italia è difficile a prescindere dall’età per via delle lentezze burocratiche, di un sistema normativo complesso, di un fisco asfissiante e per la scarsità di competenze di valore richieste dal mercato corrente. Se fare impresa è operazione complessa per chi è navigato, figuriamoci cosa implica per chi deve lanciare un’impresa da zero ed è privo di un passato imprenditoriale.

In cima alla lista delle complessità, cosa mettiamo: forse il reperimento di risorse finanziarie? 

Sicuramente l’accesso al credito è il problema numero uno. Per questo abbiamo chiesto al Governo di supportare l’accesso degli imprenditori sotto i 40 anni a strumenti di finanza alternativa. In particolare, a  basket bond da disegnare a misura di imprenditori giovani. Per farlo occorre rafforzare la garanzia di prima perdita prestata dal Fondo di Garanzia per le PMI, abbassando la soglia minima delle emissioni garantibili dagli attuali 2 milioni ad almeno 500mila euro.

Ma basta questo? Altro?

A più di 10 anni dall’ultimo intervento organico, è una buona notizia la Proposta di Legge 107 per startup e PMI innovative. Anche perché la generazione che s’affaccia ora all’imprenditoria è la prima a essere nativa digitale. La proposta però andrebbe rafforzata potenziando gli incentivi e prevedendo premialità aggiuntive per chi opera o investe in innovazione o green, temi su cui i giovani hanno una sensibilità particolare. Va facilitata, inoltre, l’istituzione di fondi di corporate venture capital affinché lo strumento si allarghi al privato e, in particolare, alle PMI. Insomma, l’anagrafe è pronta a ricordare chi ha le carte in regola per vivere da protagonista l’industria 5.0.

Questa è la vostra richiesta. Che esito sta sortendo?

Al momento siamo stati ascoltati e abbiamo riscontrato interesse. Siamo in attesa. 

Spingiamo lo sguardo otre la corona delle Alpi. Voi giovani imprenditori europei, come vivete l’esuberanza dei colleghi asiatici e americani, i figli delle due economie portanti?

Chiediamo compatti che l’Europa agisca in modo coeso anziché frammentario come troppo spesso accade. 

Concetto ribadito da Mario Draghi all’evento di novembre del Financial Times…

Dobbiamo ragionare come sistema-continente per poterci confrontare con il blocco cinese e americano. Che è sfidante se ci muoviamo assieme, figuriamoci se noi Europei entriamo in campo separatamente. Per essere competitivi dobbiamo essere uniti. 

Facciamo un esempio di azione condivisa.

Dovremmo iniziare ad allearci per guadagnare leadership tecnologica dove la strada non è già battuta dalle due super potenze. 

Un esempio? 

L’Europa deve diventare leader nell’utilizzo di materiali non contesi e largamente diffusi in natura, sostenibili e rigenerabili. Dandogli, quindi, un nuovo utilizzo. Già questo sarebbe un buon inizio.

Trova che i giovani imprenditori europei vogliano più fortemente dei padri e dei nonni un’Europa unita?
Siamo la cosiddetta generazione Erasmus, quella che più delle altre ha  apprezzato e fatto propria l’idea di Europa. Sono sicuro che mai come adesso i giovani imprenditori del vecchio continente  sentono condividere le stesse istanze. E’ molto più facile parlare adesso di battaglie comuni rispetto a 20 anni fa.

Torniamo all’Italia e alle difficoltà nel fare impresa. Dopo l’accesso al credito, cosa vi tormenta di più?

Non è tanto il livello di tassazione comunque tra i più alti tra i Paesi Ocse e il fatto che dopo anni di tassi vicino allo zero ora siano lievitati. La nostra spada di Damocle è rappresentata dal reperimento di capitale umano. La  storia imprenditoriale del nostro Paese è legata al manifatturiero di altissimo livello, un settore che oggi chiede nuove figure e le stesse di un tempo ma con competenze aggiornate. Abbiamo bisogno di tecnici specializzati, di laureati nelle discipline Stem. Sento colleghi dubbiosi se accettare alcune commesse perché temono di non poter contare su collaboratori che per numero e formazione  siano adeguate alle richieste. Viviamo il paradosso di un Paese che da un lato ha il più alto tasso europeo di neet (giovani che né studiano né lavorano) e dall’altro è carente quanto a  persone formate.

Alla radice, una scuola non sempre al passo coi tempi…

Per questo c’è la necessitò di operare sull’orientamento universitario, dobbiamo spingere i ragazzi, e in particolare le ragazze,  verso le discipline Stem. Così come va curato l’orientamento per le scuole superiori. E ancora, vanno rivalutati (ndr aggiungiamo: ancora prima riformulati) gli istituti professionali e tecnici, dobbiamo liberarli dallo stigma di essere scuole di classe B. 

In attesa che arrivino lumi, voi che fate?

Apriamo le aziende alle scuole affinché i ragazzi possano appurare di persona quanto può essere interessante lavorare in azienda. Dobbiamo incentivare la frequenza degli ITS, spiegare che sono accademie di alto profilo, ricche di tecnologia e con docenze affidate a manager e imprenditori di valore. Dobbiamo convincere i genitori, ancor prima dei ragazzi, che la formazione tecnica non solo non  è un ripiego, è semmai un’occasione.

Che misure vanno messe in campo per trattenere i migliori evitando che migrino oltre confine?

Stiamo chiedendo con forza, lo abbiamo fatto anche in occasione dell’ultima manovra, di ridurre il cuneo contributivo sul lavoro in modo strutturale così, anche, da aumentare il livello delle retribuzioni: quelle che i talenti trovano all’estero. C’è poi una politica di welfare integrativo, va creato un sistema lavoro a misura dell’ultima generazione la quale ha esigenze diverse rispetto a quella dei padri e dei nonni.

Quali sono le regioni dove è più semplice per un giovane fare impresa? E’ il consueto triangolo Lombardia-Veneto-Emilia Romagna o per i giovani vi sono anche alternative?

Non c’è dubbio che la terna menzionata primeggi in tal senso. Però qualcosa si sta muovendo anche al Sud. Penso a distretti come quello dell’aerospazio in Puglia, ma anche a Catania che  sta assumendo un ruolo strategico a livello europeo nel campo dei microchip. Stanno fiorendo opportunità che sono sempre meno cattedrali nel deserto. 

Trovate che le università italiane, non proprio in cima alle classifiche internazionali dei miglior atenei, riescono a forgiare l’imprenditore 5.0? 

Abbiamo laureati che costruiscono carriere brillanti in tutto il mondo e che dunque dimostrerebbero che vi sono corsi di studio capaci di offrire una formazione d’eccellenza. Ribadisco però un concetto: siamo troppo carenti sulle materie Stem e questo impatta negativamente sulle aziende italiane.

Le donne e l’imprenditoria di ultima generazione. Un commento.

Sono ancora troppo poche. Stiamo impiegando solo metà dei cavalli del nostro motore, le donne vanno messe nelle stesse condizioni operative degli uomini.  C’è uno stacco tra occupazione maschile e femminile pari a 18 punti. Si calcola che se il tasso occupazionale delle donne equiparasse quello maschile il PIL crescerebbe del 12,4%.  Dato su cui riflettere.

Anna Franini
Anna Franini
Anna Franini, giornalista di Forbes e il Giornale. Scrive storie di Leadership, Imprenditoria, Innovazione. Intervista fondatori di aziende miliardarie, Premi Nobel, Breakthrough, Academy Awards, Pulitzer, Pritzker.
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