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KAUFMANN, il numero uno dell’Opera (oltre che del 7 dicembre alla Scala)

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Intervisto Jonas Kaufmann, l’artista di punta dello spettacolo di canto e balletto del 7 dicembre, evento a porte chiuse, in diretta su Rai1.

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Il tenore del III millennio è Jonas Kaufmann, artista a tutto tondo, di grande intelligenza interpretativa. Conta su una voce tutta sua, dal timbro brunito, ricca d’armonici, e capace di chiaroscuri. Altro tratto distintivo: entra nel personaggio come un attore cresciuto – così parrebbe – all’Actors Studio. Nei teatri d’opera italiani, dove lo zoccolo duro vive a pane e Verdi e Puccini e titoli italiani d’Ottocento, solo lui riesce a inchiodare gli spettatori alla poltrona con due ore di pagine austro-tedesche. Così è accaduto con il recital alla Scala, un raggio di luce nel primo giorno – era il 22 ottobre – di coprifuoco, e a un soffio dalla chiusura dei teatri. E alla Scala torna nei prossimi giorni. Sarà l’artista di punta dello spettacolo di canto e balletto del 7 dicembre, evento a porte chiuse , ripreso però in diretta Rai1, in sostituzione della classica Prima soppressa date le difficoltà legate al covid. 

Kaufmann ha un fare da ragazzo che veleggia sui laghi bavaresi e si entusiasma per il Festival della Birra di Monaco, ma di fatto è teutonico per pragmatismo, nettezza nelle decisioni e uso – mirato – delle parole. Non gioca con il fascino del bel tenebroso che rende ancor più corposa la schiera di chi apprezza la maschia beltà. Sicura fonte di reddito per le case discografiche, Sony se lo tiene ben stretto tanto che nella seconda metà del 2020 ha messo in fila una serie di album, Otello, It’s Christmas, Selige Stunde, Summer Night’s Concert of the Vienna Philharmonic. Da settembre Amazon Prime sta distribuendo A Global Star in Private, un  film su di lui.

Con It’s Christmas, lei finirà sotto tanti alberi di Natale

Ci tenevo molto all’uscita di questo disco. Ho fatto una scelta internazionale alternando brani in più lingue e legati a diverse tradizioni perché il Natale è una festa internazionale. Ho inserito anche pagine che cantavo da bimbo. Ho un ricordo molto dolce del 25 dicembre.

Come lo festeggerà, dato l’anno funesto?

Non può mai mancare l’albero. Ho un salotto alto più di 4 metri,  e in genere lo occupo tutto. Con mia moglie stiamo però valutando cosa sia meglio per il nostro piccolo Valentin , forse  per quest’anno sarà meglio ridurre le dimensioni. Al mio secondo Natale, avevo 17 mesi, il nonno aveva portato delle lampadine elettriche per addobbare l’albero ricordando ai mei genitori che le candele sarebbero state pericolose data la mia presenza. I mei, invece, volevano preservare la tradizione delle candele e così fecero. Ma quando vidi l’albero – così mi raccontano – andai ad abbracciarlo e lo feci cadere.

L’album Selige Stunde è il frutto del lockdown di primavera. Ci racconti come è nato.

Non cantavo in pubblico dai primi di marzo. Le prime due settimane a casa scivolarono via benissimo, anzi mi godevo lo stare finalmente in famiglia. Bello! Però dopo un po’, la sosta iniziava a pesare, era diventata  un problema. Così ho iniziato a farmi venire delle idee.

Vediamole in ordine.

Lavorai al post-produzione di Otello, mi concentrai sull’ipotesi di un documentario, quindi estrassi dal cassetto un progetto di incisioni di piccole pagine, ci pensavo da tempo ma questo è il tipico album che lasci sempre in coda a tutto il resto. C’era un problema però: come fare senza il mio pianista Helmut Deutsch, di casa a Vienna?

E con i  confini chiusi…

Helmut Deutsch partì con il proposito di spiegare tutto in dogana. Niente da fare. Bloccato. Così chiedemmo ai vertici di Sony di intervenire. Dopo tre quarti d’ora di interlocuzione, Deutsch riuscì a passare. E’ poi rimasto nella nostra casa di Monaco per tre settimane.

Data l’agenda  sempre fitta di appuntamenti, tre settimane di lavoro a casa, con il proprio pianista, è un lusso senza pari.

E consapevole, ne ho approfittato per esplorare il mondo delle canzoni viennesi, s’è fatta tanta musica anche per il solo gusto di farla, a prescindere dall’impegno discografico. 

E’ nato un cd molto intimo, tutto sospiri. E’ la sua risposta a questa fase storica?

Riflette il sentimento che ha accompagnato quelle giornate. Sono canzoni fatte di sussurri, di mezzetinte, non c’è la grande forza del tenore. 

Come sarà – a suo avviso – il mondo dell’opera e della musica d’arte nel post-pandemia?

Se i teatri e le sale da concerto chiudono, prima o poi a tanti musicisti non resta che cercarsi un altro mestiere. Non dovremo sorprenderci se la metà dei talenti attivi nel pre-pandemia non ci sono più quando riapriranno i teatri. E questo accadrà laddove non c’è supporto dello Stato e neppure il pubblico si impegna a far capire ai politici che tale supporto è doveroso. Parlo – naturalmente – di un futuro possibile. Ma la percezione è che la riapertura sarà una catastrofe.

Fra sommersi e salvati…

Un teatro come la Scala sopravviverà anche a questa crisi, a morire saranno le piccole realtà, le organizzazioni private. In questo momento non c’è una prospettiva, non sappiamo quando torneremo alla normalità. E la cosa rende il presente ancora più buio. 

Siamo in trincea

Però durante la guerra i teatri erano rimasti aperti in risposta al bisogno della gente di distrarsi, di dimenticare la miseria. Del resto, tanta musica non è forse stata creata anche per questo motivo? Ho visto alcuni Paesi, a partire dall’Italia, ed enti fare grandi sforzi per  aprire a ogni costo. Penso alla Scala che in ottobre mi ha chiesto di sostituire un collega con problemi di salute. Arrivato a Milano s’è dovuto comunque cancellare Aida per altri problemi e in giornata la serata è stata riprogrammata per la seconda volta: si voleva trovare a tutti costi un’alternativa per dare il segnale che c’è voglia enorme di fare musica. 

Negli Usa non si fa musica dal vivo da mesi.

E i musicisti non ricevono un dollaro di stipendio. Quando si spezza un ramo, poi non ne cresce un altro. Già prima della pandemia, il mondo dell’opera aveva problemi, si è sempre dovuto combattere, ma ora siamo arrivati al culmine di una crisi già in corso.

Nella migliore delle ipotesi, la lirica potrebbe diventare più lenta. I ritmi di voi artisti sono spesso frenetici, tanti teatri riducono i momenti delle prove mandandovi subito in scena.

Dopo un anno trascorso a mangiare pizza congelata e hamburger quando finalmente riesci a  rimettere piede in un ristorante, il cibo risulta ancor più incredibile. Detto questo, confesso che faccio questo mestiere e scelgo un determinato repertorio perché soddisfa un mio bisogno interiore. Anche con i ritmi veloci del pre-pandemia non ho mai perso la gioia di fare musica.  Evito di riproporre lo stesso programma. Cerco di scoprire qualcosa di nuovo.  Una cosa è certa. Per i i primi concerti dopo il fermo di primavera, ho provato una emozione particolare nel ritrovarmi di fronte a un pubblico vero. E quando sono tornato a fare un’opera completa (Don Carlos a Vienna) con costumi, regia, coro, ho visto tutti i colleghi della compagnia particolarmente soddisfatti per il ritorno sul palcoscenico. 

Quanto è difficile entrare e uscire da un personaggio?

Fa parte del mio mestiere. Devo sapere come entrare ma anche come uscire da un  personaggio, e per uscire entra in aiuto il pubblico, è lui che alla fine della recita, quando cala il sipario, ti riporta alla realtà interrompendo la tensione grazie alla quale tu sei stato qualcun altro. Ho colleghi che quando lavorano a un’opera cercano il personaggio dentro di loro ogni ora del giorno, anche finite le sessioni di prova. Io no. Per me dev’essere un atto spontaneo.

Discorso che vale anche per Otello?

Con lui è diverso. Ho difficoltà ad uscire da questo personaggio. Otello ti rimane appiccicato addosso, è troppo realistico per andarsene via in fretta. Giuseppe Verdi ha creato qualcosa di molto particolare, senza la mediazione di una maschera, senza dolcezza. In Otello esce il puro animale.

Pare che non sarà con Otello che Lei tornerà alla Scala.

Con il sovrintendete Dominique Meyer stiamo lavorando a progetti elaborati quasi al 100%. Ma i tempi non sono ancora maturi per preannunciarli, e comunque non spetta a me farlo per primo.

Di recente ha collaborato con l’uragano Valery Gergiev. Come si è trovato?
Benissimo. Anche perché abbiamo temperamenti simili, ci piaciamo e siamo in grande sintonia

Chi, come lei, fa una vita vagabonda si confronta spesso con la solitudine. Che rapporto ha con la solitudine?

Per anni è stato durissimo veder crescere i figli da lontano, così come pesavano le serate da solo negli hotel e il consumare i pasti negli orari sbagliati. Poi si impara a organizzare la famiglia, il  lavoro, e tutti gli impegni. Per i concerti d’ottobre, per esempio, ho portato tutti con me in Italia. La carriera conosce fasi diverse.

Ha quattro figli, l’ultimo ha due anni. Cosa continua a farle scoprire la paternità?

E’ un’esperienza nuova a seconda del momento della vita in cui si realizza. Sono diventato padre quattro volte e ogni volta è stata ed è un viaggio diverso. Non si può riassumere facilmente. Va provato e vissuto ogni giorno e per ogni figlio nel momento della sua crescita, nella sua unicità.

Cosa dire a chi ritiene l’opera accessibile a pochi o comunque non a tutti?

Che è una forma d’arte molto emozionale, combina musica, teatro, luci, costumi, trucco. E’ nata per intrattenere. Esercita il suo potere magico proprio nel momento in cui lo spettatore non l’affronta con preconcetti. Non è necessario doversi informare su cosa si vedrà. Basta andare in teatro.

Sappiamo che non va matto per le cosiddette regie alla tedesca,  ipermoderne, iperattualizzate…

L’opera deve essere un sogno, non necessariamente deve rispecchiare la nostra realtà che tra l’altro è già divulgata da televisione e cinema. L’opera deve essere magia. Il compositore dà sempre una chiave registica. Ogni frammento musicale richiede un certo tipo di regia. Scena e musica devono combaciare altrimenti sono guai.

Quando la mente va agli anni di gavetta, a una carriera che stentava a decollare: cosa prova?

Sono stati  anni fondamentali per la costruzione di una carriera solida. Certo, con il debutto al Metropolitan di New York finalmente entrai nel “campionato internazionale”. Non nascondo che non sono mancati i momenti in cui ero sul punto di mollare. Nonostante la mia passione per la musica e per il teatro, non potevo immaginare di continuare a coltivare una professione quando l’unica certezza era l’incertezza.

Per un artista quanto è fondamentale il management giusto?

Penso che sia determinante conoscere bene il proprio strumento, la voce, e bisogna saper seguire il proprio istinto nelle decisioni di carriera. C’è chi ti può consigliare, ma chi meglio di te sa cosa sia meglio o peggio? Ho visto persone firmare contratti senza prima aver letto la partitura scoprendo, alla fine, che c’erano note che non avevano e così cadevano nella disperazione. Più volte ho rinunciato a opportunità perché avvertivo che non sarei riuscito a fare bene come avrei voluto. Questo atteggiamento fa sì che la ruota della tua carriera giri lenta, in compenso la costruisci mattone su mattone.

Anna Franini
Anna Franini
Anna Franini, giornalista di Forbes e il Giornale. Scrive storie di Leadership, Imprenditoria, Innovazione. Intervista fondatori di aziende miliardarie, Premi Nobel, Breakthrough, Academy Awards, Pulitzer, Pritzker.
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