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MAJORANA. Un Kilometro di futuro

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Il tratto autostradale della A4 che precede l’uscita di Bergamo è accompagnato da un muro rosso in alluminio estruso,  alto 10 metri e lungo 1 chilometro. Il suo nome è dettato dal pragmatismo del territorio in cui sorge. Siamo al Kilometro Rosso, campus d’eccellenza dove convergono marchi, menti e aziende visionarie per fare ricerca, innovazione e impresa.

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Un parco tecnologico-scientifico con 70 partner residenti per un totale di 2mila addetti e ricercatori, 35 progetti di ricerca e sviluppo finanziati per oltre 133 milioni di euro. Alla cabina di regia siede Salvatore Majorana, direttore del KR dal 2017, ingegnere, MBA all’Insead, un passato – anche al fianco dell’attuale ministro Roberto Cingolani –  all’IIT di Genova, e prima in AT Kearney, Deloitte, Fondo KIWI. Porta con scioltezza un cognome impegnativo: il geniale Ettore è la punta di una famiglia di grandi scienziati ed economisti.

Salvatore Majorana ha compreso e capitalizzato prima di altri la rivoluzione innescata dall’economia della conoscenza, per questo – fra l’altro – sta promuovendo fondi di investimento in attività di trasferimento tecnologico (Eureka e Cysero) al KR dove lavora perché la scintilla  dell’innovazione accenda l’industria e affinché i prodotti, protetti da brevetti, finiscano sul mercato. 

In Italia s’inventa ma non si brevetta. Manca la cultura della protezione del patrimonio intellettuale. Cosa fare?

Il brevetto è uno strumento fondamentale nel processo dell’innovazione.  Consente di connettere chi crea la novità con chi la porta sul mercato facendone un valore condiviso per la comunità. Le realtà presenti al KR, ad esempio, hanno depositato 580 brevetti finora, segno di una forte attenzione all’innovazione, ma nel nostro Paese il complesso delle conoscenze che non vengono coperte da brevetti è enorme. In assenza di questo prezioso strumento di protezione, emergere sul piano internazionale è molto più difficile, e si rischia di condannare le nostre imprese a restare piccole e incapaci di difendere le proprie competenze di  di fronte ai grandi gruppi internazionali.

Tra l’altro il brevetto è un’invenzione italiana.

Dietro ai grandi cambiamenti planetari degli ultimi 150 anni c’è tanta  Italia e pochissimi lo sanno. C’è un problema. Meucci ha inventato il telefono ma è stato Bell a brevettarlo traendone un’industria. Olivetti ha inventato il calcolatore elettronico  poi  venduto all’IBM che ne ha fatto un’industria. Federico Faggin, fresco di studi all’Università di Padova, ha inventato il primo micro-processore. La lista è lunga….

…e ci dice che le invenzioni vanno protette ma anche finanziate.  E lei si muove in questa direzione. Entriamo nei dettagli.  

Quando Bombassei (ndr Presidente di KR) mi propose di sviluppare un piano di trasferimento tecnologico per il territorio ritenni che questa sfida avrebbe lasciato spazio anche alla creazione di un Fondo di venture capital. A fianco ai progetti sviluppati con le imprese e i centri di ricerca, era infatti necessario arricchire l’ecosistema del KR con quegli strumenti che permettessero alla ricerca di trasformarsi in nuova impresa. È così che dall’incontro con Anna Amati, Stefano Peroncini e Massimo Gentili, nasce il progetto Eureka! con  il quale investiamo oggi in idee che provengono dai centri di ricerca italiani nel settore dei materiali avanzati.

 E sempre al KR, quest’anno è nato il Fondo Cysero con un contributo  di partenza di 15 milioni da parte di Alberto Bombassei, Angelo Radici e Pierino Persico.

Sono capitali che andranno a promuovere lo sviluppo della cybersecurity e robotica al servizio della persona, e avere imprenditori che credono in questo progetto è imprescindibile. Il fondo è uno  strumento che coniuga la natura finanziaria con un deciso imprinting industriale, elemento indispensabile per lo sviluppo di aziende ad alta tecnologia. Cysero è un esperimento nuovo per il nostro Paese, alla ricerca di un collegamento efficace tra  la finanza, anche istituzionale, e il territorio, in particolare il territorio fatto di eccellenze manifatturiere. Crearlo con un punto di riferimento nel Kilometro Rosso è un segnale sia per l’area imprenditoriale lombarda sia per il Paese, a volte chiuso in schemi precostituiti. Crediamo che Cysero possa dimostrare che è possibile guardare oltre l’ostacolo mettendo a sistema le competenze che l’Italia esprime.

Ricerca-Innovazione-Industria. E’ una triangolazione necessaria ma ancora per niente ovvia.

Ricordo un grande ricercatore che disse a un gruppo di imprenditori: “Il brevetto è fatto, il resto è solo industrializzazione”. 

E gli imprenditori?

Basiti. Lui era convinto che il suo lavoro fosse completato. In realtà il trasferimento di competenze dal mondo della ricerca alle imprese va aiutato. I due mondi tenderebbero a vivere in modo autonomo ma non se lo possono permettere. 

E i vaccini anti-Covid19 lo stanno dimostrando. 

La pandemia ha insegnato proprio questo. La ricerca scientifica spesso consente di superare le difficoltà, ma se non la aiutiamo ad affacciarsi al mondo dell’industria, la soluzione rimane nel cassetto. Fare trasferimento tecnologico vuol dire liberare energie e valore per la società. Senza questo anello il cittadino paga le tasse per generare conoscenza che non ritorna perché non passa dalle industrie.

Chiedo a lei che si occupa di innovazione. E’ così difficile anticipare i tempi anziché inseguirli come accade puntualmente? In alcune parti del mondo, vedi Singapore, il Covid è il passato e già si lavora per la prevenzione di pandemie e cataclismi futuri. 

Il trasferimento avviene grazie al coinvolgimento di tecnici, scienziati, imprese e un attore politico. Io ho sempre visto tecnici e industriali fare programmi di lungo termine. L’attore politico è  concentrato su cosa succederà entro le due settimane successive. In Europa siamo costantemente in campagna elettorale, bravi a raccontare le storie e meno a progettarle.  E questo, mentre in Cina si fanno piani trentennali. Certo, lì le elezioni sono proforma. Ma ci sarà pure un compromesso fra il goderci il bello della democrazia e il bello del progresso.

Come è la giornata tipo di un direttore di un parco scientifico? 

Trascorro circa 10 ore fra incontri, web-conference e telefonate, poi la sera inizia la seconda parte: scrivo. Sono giornate ad altissima intensità relazionale perché è imprescindibile la relazione tra le persone per far accadere le cose. Ci muoviamo in una rete e quando  tocchi un pezzo devi sapere quanti altri pezzi si muoveranno insieme, e in tal caso vanno promosse le accelerazioni ed evitati i ritardi. Poi c’è uno studio continuo per conoscere e approfondire i contenuti di cui si va a parlare. Certo. Ho la fortuna di relazionarmi con ricercatori e imprenditori con competenze straordinarie e che quindi accrescono anche le mie.

Che studente è stato?

Ho sempre studiato tanto e volentieri. Da bimbo, al rientro dalla messa con la nonna, facevamo sosta in edicola per comprare Topolino e i fascicoli dell’enciclopedia delle scienze, la mia lettura iniziava sempre dall’enciclopedia. Se si è curiosi, riesce facile studiare. Poi ho sempre applicato un principio  trasmesso da mio padre: nella vita devi fare quello che ti fa piacere fare, ma se non puoi, fatti piacere quello che devi fare.

E arriviamo alla Sicilia. Viene da una famiglia di intellettuali formidabili, però non è scontato costruirsi un profilo come il suo crescendo in un’isola. 

In realtà mi sento fortunatissimo, soprattutto se mi paragono ai miei figli che crescono a Milano. La Sicilia regala una dimensione personale e interpersonale che la metropoli non ti dà. Penso che la mia capacità di generare relazioni sia maturata proprio grazie a quel contesto. E comunque a  14 anni già ero negli Usa per un periodo di studio, il primo di una serie. Tra l’altro le esperienze all’estero mi hanno insegnato che in Italia si  studia molto bene,  anche se manca il taglio pratico della formazione anglosassone. L’ideale è riuscire ad amalgamare i due approcci.

Qual è la versione della famiglia Majorana quando si parla del giallo della scomparsa di Ettore?

Chiedere alla famiglia Majorana una posizione univoca è un’avventura. Ricordo una riunione di famiglia con parenti arrivati da mezzo mondo. Parenti stretti eppure eravamo in 92.  Mio trisnonno aveva sette figli e ognuno ne ebbe fra i cinque e i sei. Siamo tanti…

Allora vediamo la versione di Salvatore Majorana

Ettore è stato un genio assoluto, un fuori scala. Così ne parlano persone geniali come Fermi e chi lavorato con lui. Ancora si continua a scoprire elementi del suo lavoro rimasti incompresi fino ad ora e che dimostrano quanto fosse avanti. Gli zii mi riferivano di un Ettore per nulla avulso dal contesto in cui si muoveva, comprendeva perfettamente la situazione storica. Poi, nel  1933 accaddero due cose. Andava a Lipsia da Heisenberg scoprendo una limitazione nella teoria del grande scienziato che proprio per quella teoria aveva vinto il Nobel, e lì Heisenberg disse al mio prozio di rendere pubblica la falla. La qual cosa lasciò esterrefatto  Ettore che scriveva alla madre quanto fosse sorpreso del fatto che Heisenberg invece di invitarlo a stare zitto lo spingeva a pubblicare i propri esiti. Così, in Germania, da un lato aveva trovato un ambiente estremamente stimolante, e dall’altro proprio in quell’anno aveva assistito al rogo dei  libri a suggello dell’affermazione del Nazismo. Quando vivi questa dicotomia, torni in Italia, quasi ti imponi per farti dare una cattedra,  la ottieni e verifichi che non tutti gli studenti brillano, e nel frattempo le leggi fasciste avanzano….:metti assieme i puntini e prendi una decisione. S’aggiunga che nel 1938, anno del Nobel a Fermi al quale chiesero di indossare la camicia nera per il ritiro del Premio, Fermi aveva deciso di andare negli Usa. Penso che Ettore abbia trovato il suo modo per stare in pace, per sottrarsi a quel contesto. Nelle lettere alla famiglia parlava con grande ironia dei Tedeschi che sui treni battevano i tacchi con marzialità imperante e crescente. Li prendeva in giro. Sapeva valutare. E decise.

Torniamo al Kilometro e ai suoi 70 partner sotto uno stesso tetto  per creare connessioni, interagire, scambiare conoscenze. Quanto è naturale questo processo? 

Non è ovvio che mettendo 70 soggetti diversi in unico luogo l’innovazione accada per osmosi naturale. Ci sono casi in cui succede. Ma serve un catalizzatore della reazione, serve un enzima che promuova il  processo. Noi qui ci occupiamo di stimolare le aziende a parlarsi, creiamo l’occasione. E se non rispondono, li stimoliamo nel senso che andiamo fisicamente a prenderli nei loro uffici. Questo è il mestiere di chi opera nei parchi  scientifici.

E fra i parchi scientifici che relazioni ci sono?

Noi siamo un nodo di una rete internazionale di 350 parchi scientifici in cinque continenti, e all’interno c’è una rete di parchi italiani con cui siamo soci. Un complesso come il nostro va oltre i confini fisici della sua presenza. Capita che dall’associazione parchi scientifici internazionali riceviamo richieste di soluzioni ai problemi che nascono in altri parti del pianeta.

Lei nasce ingegnere, si prende un MBA, viene coinvolto e poi promuove Fondi di investimento. Come si diventa direttore di un parco scientifico?

Prima cosa. Si  tende a considerare accessorio il lavoro di chi fa da matchmaker ritenendo che il vero lavoro sia di chi fa ricerca o fa industria. Invece bisogna rivalutare e investire in questo settore, mancano infatti profili di professionisti che abbiamo comprensione delle dinamiche aziendali, della tecnologia e dei rispettivi linguaggi, e che infine sappiamo arrivare a una sintesi. Anni fa visitai il MIT, la Columbia e Berkley per capire il funzionamento statunitense del tech-transfer. Mi impressionò il commento del mio omologo al MIT: “Se da noi non hanno fatto almeno dieci anni di lavoro nell’industria, non li prendiamo perché non saprebbero come funzionano le aziende”. Per dire che mentre in Italia si puntava su neolaureati, lì già allora andavano a prendere professionisti addirittura a fine  carriera. Ci sarebbe uno spazio enorme per valorizzare i nostri cinquantenni se solo mettessimo a frutto le competenze maturate nelle imprese e dessimo al comparto del tech-transfer la dignità che merita.

Anna Franini
Anna Franini
Anna Franini, giornalista di Forbes e il Giornale. Scrive storie di Leadership, Imprenditoria, Innovazione. Intervista fondatori di aziende miliardarie, Premi Nobel, Breakthrough, Academy Awards, Pulitzer, Pritzker.
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