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L’importanza di avere il bernoccolo della matematica. Il caso Eugenio Zuccarelli.

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Ha solo 28 anni eppure già guida la squadra dei «data scientist» della multinazionale della salute CVS (la quarta al mondo). Si chiama Eugenio Zuccarelli

Con Eugenio Zuccarelli, data scientist (scienziato dei dati) di Genova, si ripropone il paradigma Leonardo Del Vecchio, Elon Musk, Jeff Bezos: in vetta per capacità ma ancor prima per la spinta ad essere i migliori in campo. Quello di Zuccarelli è il campo dei dati e analisi correlate in area medica. Ha 28 anni, ma il bernoccolo della matematica l’ha già portato lontano, anche in senso geografico. A Manhattan, nel cuore di New York, guida una squadra di data scientist della multinazionale della salute CVS, la numero quattro al mondo per fatturato. 


Nel suo website ha messo in fila i titoli di studio – ingegneria a Genova, ingegneria biomedica e neurotecnologie all’Imperial College, analisi aziendale al MIT di Boston, un corso semestrale a Harvard -, quindi tutte le testate che parlano di lui, da Forbes a Bloomberg, The Washington Post, Fortune, Financial Times. I media più autorevoli si sono occupati di Eugenio Zuccarelli perché prende parte, e talvolta guida, squadre di scienziati che fanno scoperte portentose come il prototipo di una protesi che si comanda col pensiero grazie all’intelligenza artificiale. 

È all’Imperial College che ha compreso quanto sia potente l’alleanza tra intelligenza artificiale e neuroscienze. Entriamo nei dettagli. 
«Lì si è aperto un mondo che pensavo fosse fantascienza. Mi spiego con un caso concreto. Persone con braccia amputate lamentavano quanto fosse complicato usare gli strumenti di cui disponevano. Così, ci siamo impegnati per creare una protesi robotica la più verosimile possibile a un arto umano e rispondente alle intenzioni dell’uomo. Abbiamo utilizzato dei sensori per leggere l’attività muscolare del braccio sano, dando in pasto questi dati a un sistema di IA, abbiamo allenato il modello a capire a quale segnale muscolare corrisponde il movimento dell’arto». 

Questa è l’esperienza britannica. Ora è negli Usa. Cosa fa esattamente in CVS? 
«Analizzo dati, in gergo gli insights cioè i dettagli che sono di solito inaspettati, a volte contro-intuitivi, dati per esempio che indicano quali malattie stanno avendo più impatto sulla popolazione, anche da un punto di vista economico. Ultimamente siamo focalizzati su diabete e ipertensione».
Raccolti i dati cosa succede? 
«Li passiamo ai leader di settore, dai medici alle organizzazioni governative e politici cercando da un lato di comprendere i loro obiettivi e dall’altro di comunicare al meglio gli esiti delle nostre analisi, noi tutti abbiamo una formazione scientifica quindi questa fase di lavoro per alcuni è particolarmente sfidante». 
Come è arrivato in CVS? 
«Ho mandato la mia candidatura. Al contempo ho cercato di conoscere i vari dirigenti della società per capirne aspettative e strategie. Il networking è stato fondamentale».
E così ha saltato i caporali puntando ai generali… 
«Scrivere direttamente a chi assume è uno dei modi più efficaci per raggiungere lo scopo prefissato, entrare in contatto con le persone chiave consente di mostrare chi sei e qual è il livello della tua passione, aspetti non esprimibili via curriculum. Troppo spesso i giovani si limitano a postare la candidatura sui siti online finendo in un mare di competizione». 
Tempi di assunzione? 
«Dalla chiamata iniziale al colloquio finale meno di un mese».
I dati possono salvare o comunque migliorare la vita. Vogliamo spiegarlo? 
«Non se ne parla mai abbastanza. Il singolo dottore difficilmente ha a che fare con milioni di casi, un medico ha una specializzazione, si focalizza su un solo Paese e spesso opera sempre nella stessa zona. Un sistema di intelligenza artificiale ha invece una copertura globale, l’algoritmo ha accesso a una tale quantità di dati per cui è più semplice fare paralleli tra casi differenti. Gli algoritmi non sostituiscono il medico, sono pensati per aiutare a definire la diagnosi, sono strumenti nella stessa misura in cui lo sono gli stetoscopi. E aggiungo: ma infinitamente più potenti». 

Ha sperimentato il sistema sanitario americano, quello inglese e da paziente il nostro italiano. Cosa dice del sistema tricolore? 
«Abbiamo dottori e ospedali che sono pure eccellenze. C’è però un ambito in cui l’Italia, come tanti altri Paesi, può fare di più: è l’interoperabilità dei sistemi tecnologici. Il fatto che i sistemi elettronici di un ospedale non parlino con quelli di altri ospedali crea grossi problemi. Anche l’utilizzo preponderante di carta e penna anziché di un registro di dati digitale crea limitazioni per i ricercatori e per il sistema sanitario stesso». 

Ha studiato in istituti leggenda, Mit, Imperial College, Harvard, e prima a Genova. In cosa le nostre università reggono il confronto? 
«I nostri atenei offrono un’istruzione di altissimo livello, molti docenti dell’Università di Genova li ho proprio incontrati al MIT. Il problema è che nel nostro Paese vengono anteposti gli aspetti teorici e il rigore dei concetti all’apprendimento di argomenti magari più semplici ma poi spendibili in ambito lavorativo. Per esempio, alcuni dei corsi aggiuntivi fatti negli Usa affinavano le capacità di comunicare con un uditorio non tecnico, insegnavano come fare presentazioni in modo efficace e gestire al meglio le dinamiche aziendali. La qualità delle facoltà, professori e strumenti dei tre istituti che menziona è impareggiabile, ma su tutto ho apprezzato l’attenzione allo sviluppo pragmatico di abilità poi utili nel mondo del lavoro. In questo le nostre università, invece, sono spesso carenti». 
Che studente era al liceo, se non erro concluso entro i 18 anni. 
«Sono andato a scuola a 5 anni, per questo ho poi chiuso le superiori in anticipo. Ho fatto un liceo scientifico bilingue, studiando principalmente le materie scientifiche, da sempre la mia passione. Non ero uno studente modello, però durante la seconda parte del liceo ho sentito il dovere di cambiare rotta impegnandomi di più». 
Voto di Maturità? 
«Mi sembra 95. Però non mi ricordo esattamente». 
Cosa non sopportava della scuola italiana? 
«Parto da cosa apprezzavo: la maggior parte dei docenti, veri esperti nelle rispettive materie. È il sistema scolastico ad aver bisogno di un aggiornamento, dovrebbe sviluppare le capacità del lavoro di gruppo invece di essere così centrato sull’apprendimento individuale. La scuola dovrebbe anzitutto aiutare i ragazzi a pensare, a sviluppare uno spirito critico, basta con l’ossessione della memorizzazione di informazioni. Ripeto spesso al mio team che nessuno, io per primo, sa a memoria ogni pezzo di codice, ogni algoritmo o soluzione». 
Da adolescente chi erano i modelli che la ispiravano? 
«Li ho trovati in famiglia anche se papà è scomparso che ero piccolo. Ho avuto la fortuna di avere dei nonni fantastici, mi hanno insegnato molto sia a livello personale che lavorativo. Mi hanno inculcato il concetto che per essere grandi leader bisogna innanzitutto essere persone che hanno a cuore il benessere degli altri sacrificando i profitti – se necessario – pur di creare un ambiente sano». 
Modelli fra imprenditori o scienziati? 
«Non ne ho. Troppo spesso i grandi dell’industria sono grandi lavoratori ma non sempre ottime persone». 
Da scienziato che rapporto ha con l’arte? 
«Sono un grande appassionato dei classici, soprattutto del Rinascimento. Dell’arte contemporanea apprezzo particolarmente Jean-Michel Basquiat, Keith Haring ed Ai Wei Wei, artisti innovatori che lottano contro lo status quo. L’innovazione è uno degli aspetti che trovo più affascinanti, sono molto intrigato dalla nuova arte digitale, come gli NFTs, penso che creerà un nuovo paradigma per l’arte contemporanea e non solo». 
Cosa insegna l’arte a uno scienziato? 
«Tanto. Prendiamo Leonardo, artista e scienziato, dipingeva e allo stesso tempo creava disegni e schematiche per dispositivi tecnologici. Questa intersezione di arte e tecnologia è fondamentale. Le capacità artistiche e creative sono una componente spesso trascurata nel mondo della tecnologia. Invece, i grafici più efficaci per visualizzare i dati a volte sembrano quasi dipinti, così come le soluzioni tecnologiche più efficaci sono eleganti, armoniose, vedi la sostanza e l’aspetto estetico giocare all’unisono, un po’ come un prodotto Apple che è computer performante ed emblema di eleganza». 
Curiosità. È inusuale che un data scientist, pur di successo, abbia un sito web. Cosa l’ha spinta a dotarsi di un sito personale? 
«Ho visto persone geniali non avere l’impatto che si meritavano perché il loro lavoro passava inosservato. Un po’ come l’albero che cade nella foresta vuota. Capita spesso che più una persona è capace e competente, e meno parla del suo lavoro, forse pensando che un buon lavoro sia di per sé sufficiente. Nel mio caso tutto ha preso il via dalla redazione di un portfolio per mostrare alcuni miei progetti, cosa utile per quando ci si candida a una università estera. Nel tempo è diventato un modo per dare visibilità ai progetti della mia squadra affinché persone e aziende interessate ne siano al corrente e ci contattino». 

Della generazione Zeta si dice: «Bravi ragazzi ma senza fame». Lei è un’eccezione o è l’affermazione ad essere il solito adagio sui giovani? 
«Di fame ne ho vista tanta, soprattutto tra i ragazzi italiani, sempre eccellenti quando comparati a livello internazionale. Il sistema lavorativo attuale non dà sicuramente abbastanza spazio ai giovani per poter dimostrare quanto valgono. Si tende a sminuire le capacità dei giovani perché non hanno esperienza negando loro l’opportunità di dimostrare di cosa sono fatti. In parte, se ho avuto dei successi è anche grazie alle persone che mi hanno dato spazio di poter eventualmente fallire». 
L’Italia, dunque, cosa fa per i giovani? 
«Non abbastanza. Predominano sistemi antiquati centrati quasi esclusivamente sulle generazioni precedenti. Il fatto che molti giovani cerchino fortuna altrove, sia in termini di studi che di lavoro, indica chiaramente che le condizioni attuali non incoraggiano né la crescita né il sostentamento delle nuove generazioni». 
New York è esigente fino alla crudeltà, si lavora ai limiti del burnout. Lei come la vede e vive? 
«Non è una città per tutti. È molto frenetica e non si ferma mai, ma tutto dipende da quello che una persona sta cercando nella propria fase di vita. Al momento risponde alle aspettative dei miei 28 anni. E poi non ho trovato grande differenza con Londra o Milano in fatto di orari, molto dipende dalla compagnia in cui si lavora». 

Che dire del fenomeno delle «Dimissioni di massa», della YOLO economy (si vive una volta sola…), della rinuncia al lavoro?
«È ciò di cui l’economia e il mercato lavorativo avevano bisogno. La situazione della salute mentale globale è peggiorata molto negli anni e si è perso un po’ di vista il concetto di produttività. Dilagano situazioni di burnout. È arrivato il momento di un reset. Il fenomeno delle dimissioni di massa americane ha aperto un dibattito sui diritti e capacità di negoziazione del lavoratore. Già si vedono i primi risultati». 
In cosa si sente profondamente genovese? 
«Per lo spirito d’esplorazione e l’interesse ad alzare sempre più l’asticella della conoscenza, cose che richiedono un misto di coraggio, determinazione e passione per l’avventura».

Anna Franini
Anna Franini
Anna Franini, giornalista di Forbes e il Giornale. Scrive storie di Leadership, Imprenditoria, Innovazione. Intervista fondatori di aziende miliardarie, Premi Nobel, Breakthrough, Academy Awards, Pulitzer, Pritzker.
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