Carlo RATTI

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Un Leonardo da Vinci di ultima generazione? Lui preferisce definirsi un «curioso di professione». Carlo Ratti, torinese, 46 anni, è allo stesso tempo architetto, ingegnere, informatico, fondatore e direttore del Mit Senseable City Lab di Boston, con cattedre a Singapore, Torino, Parigi, Brisbane.

È anche il socio fondatore e timoniere dello studio internazionale di progettazione Carlo Ratti associati di Torino.

Un inventore seriale le cui creature nascono dal ribollire di più saperi, teste, dinamiche. Sono creature visionarie, pensate per favorire la vivibilità della città. Quasi tutte sono pluridecorate. È il caso della Copenhagen Wheel inclusa da Time magazine fra le «Best Inventions of the Year»: una ruota che trasforma la bicicletta in uno strumento per monitorare e scambiare informazioni sulla città. Nella stessa lista di Time anche il Digital Water Pavilion di Saragozza. Riviste come Wired, Forbes, BluePrint Magazine hanno inserito Ratti fra le persone che appaiono destinate a cambiare il mondo. Il suo nome è spesso associato al concetto di Smart City. Anche se questa definizione all’interessato proprio non va.

Perché?

«Smart city è un termine troppo tecnologico. Quella che ho in mente io è una città più umana, tanto capace di sentire attraverso sensori digitali quanto sensibile rispetto ai bisogni dei suoi cittadini. E questa città preferiamo chiamarla senseable city».

Ci faccia degli esempi. Quali sono le città più senseable? Chi sta per diventarlo?

«Di casi interessanti in giro per il mondo ce ne sono molti. Singapore sta esplorando nuovi approcci alla mobilità, Copenaghen alla sostenibilità, Boston alla partecipazione della cittadinanza. Ma mi aspetto sorprese in arrivo da Africa, America Meridionale, Asia profonda».

Dall’Africa?

«Certo! Fino a qualche anno fa l’innovazione sembrava provenire solo dalla Silicon Valley. Ma poi il paradigma è cambiato. L’Africa ci ha già dato molti esempi di leapfrogging, come chiamiamo quei balzi in avanti che cambiano le regole del gioco. Per esempio, l’uso dei telefonini per effettuare acquisti o movimenti di denaro è più diffuso in certe capitali africane che non in Europa. Oppure guardiamo agli incubatori di Nairobi, nati attorno all’azienda Ushahidi e ai suoi software open source».

Per venire più vicini a noi: quanto è ricettiva l’Italia nell’accogliere le novità tecnologiche?

«Il potenziale c’è. Le tecnologie digitali, a differenza di quelle industriali del Novecento, non occupano molto spazio, possono benissimo adattarsi ai nostri vecchi e bellissimi centri storici».

Una curiosità personale. Quanto è tecnologica casa sua? Ci vuole un manuale per abitarla?

«Mi piace la tecnologia “invisibile”: e dunque la mia casa non ha nulla di futuristico all’apparenza».

Ma nella realtà?

«Il termostato Nest, che regola il riscaldamento in casa prima del nostro arrivo, il divano Lift-Bit, che cambia il tipo di seduta grazie al controllo digitale. Sono oggetti intelligenti dalle forme discrete, capaci di armonizzarsi con arredi novecenteschi, e con le nostre vite».

Car pooling e auto a guida autonoma sembrano l’ultimo grido: in Italia, quando se ne parlerà?

«Car2Go e Enjoy sono nelle nostre strade, ora si tratta di prepararsi per lo sbarco dei veicoli a guida autonoma. A quel punto non dovremo neppure più cercare una Enjoy, verrà a prenderci da sola. Ma la svolta c’è già: i ragazzi che lavorano nel nostro studio a Torino non possiedono più auto, e neanche io».

La sua professione consiste semplicemente nel migliorare la qualità della vita. Come valuta la sua? Come riesce a gestire il vortice di attività, convegni, docenze, progettazioni, e viaggi in cui è coinvolto?

«È vero che vivo di corsa, per adesso mi piace. Così come mi piacciono i progetti che facciamo in giro per il mondo. Il mio collega Tim Berners-Lee, l’inventore del web, una volta mi ha detto: ma se fai questo come lavoro, che cosa fai come vacanza? Ecco, per me è come se fosse sempre vacanza».

In tutto questo, riesce ad avere una vita privata? A incontrare amici, abbozzare un’idea di famiglia, solite cose.

«Direi di sì, anche se non quella dell’immaginario comune».

La cascata di premi e riconoscimenti sono uno sprone o un fardello che crea ansia da prestazione?

«Cerco di non pensarci. Come in montagna, sempre meglio guardare avanti invece di girarsi indietro».

Cosa replica a chi la chiama Leonardo?

«Per fortuna non è vero. Oggi il genio è solo corale, mai solitario».

Auspica che i cittadini siano sempre più coinvolti nel creare gli edifici e le città del futuro. Avversa Le Corbusier e le architetture calate dall’alto. In concreto, da un punto di vista operativo: come possono i cittadini progettare le proprie città?

«Attraverso la rete. Per progettare o anche solo per dire la loro».

Quali sono le nuove tecnologie che in campo urbano stanno avendo l’impatto più significativo?

«Quelle che permettono agli edifici di rispondere sempre più e meglio alle nostre esigenze. Un esempio è la bolla termica personalizzata che abbiamo realizzato nella rinnovata sede di Fondazione Agnelli a Torino, inaugurata poche settimane fa».

Una promessa a cui crede poco?

«La Hyperloop di Elon Musk. Che noia viaggiare in un tunnel e non poter guardare il panorama».

L’unica tecnologia che serve – ha detto – è quella che ci consente di fare ciò che abbiamo sempre voluto fare, ma che oggi possiamo fare in modo nuovo. Esempi?

«Lavorare all’aria aperta. L’abbiamo fatto per migliaia di anni, poi ci siamo chiusi dentro fabbriche e uffici. La connettività ci sta permettendo di far capolino all’esterno».

Il mondo delle costruzioni ha un tasso di digitalizzazione fra i più bassi, comparabile a quello di caccia e pesca. Cosa frena il progresso in questo campo?

«L’inerzia delle professioni e del capitale. Ma mi sembra che stia arrivando una grande svolta».

In compenso, i media hanno cambiato pelle più volte. Come vede l’immediato futuro dei media cartacei?

«La penso come il mio amico Tyler Brulé, direttore di Monocle: sopravvivrà la qualità e ci disfaremo delle cose superflue».

Costruisce squadre di lavoro che sono condensatori di talenti. Come li motiva?

«Spronandoli a guardare sempre oltre. E con qualche escursione in montagna tutti insieme, ogni tanto. A luglio siamo andati a Estoul a trovare Paolo Cognetti, con cui scarpinavamo sul Rosa da ragazzi. Credo che la montagna e la città siano due facce della stessa solitudine».

Consigli ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro. Come devono attrezzarsi?

«Consiglio, preso dal film Jules et Jim di François Truffaut. Ma allora cosa devo diventare? Un Curioso Ma non è un mestiere Non è ancora un mestiere. Viaggiare, scrivere, tradurre, imparare a vivere ovunque. Cominciate subito. Il futuro è per i curiosi di professione. Ecco, direi loro di essere curiosi di professione».

Errori da evitare assolutamente?

«Non uscire di casa».

Roger Abravanel sostiene che le aziende prediligono lauree conseguite in tempi brevi, anche se non a pieni voti, a lauree con lode ma fuori corso. E’ d’accordo?

«Se uno fa altre esperienze formative, magari viaggiando il mondo, può anche laurearsi con più calma. In caso contrario no».

Cosa rende il Mit l’istituzione formativa numero uno al mondo? In cosa è esemplare?

«La grande diversità di culture e approcci che lo animano. Ma ci sono molte altre ottime università, anche in Italia».

Che aria si respira al Mit dell’era Donald Trump?

«Un’aria pensante, come in tutto il Paese. Ma devo dire che Cambridge, dove si trova il Mit, è un’eccezione. Viene affettuosamente chiamata la Repubblica Popolare di Cambridge».

Le migliori università italiane non vengono mai incluse fra le top al mondo. Eppure centinaia di laureati italiani svettano. Come si spiega?

«Non è vero che le nostre università vanno male: mai dare troppa importanza alle classifiche, non si può trattare l’educazione come una competizione alla Masterchef».

A proposito di giovani. Che tipo di studente era?

«Bravo e spesso polemico verso l’ordine costituito. Ai professori del liceo citavo Ivan Illich e l’idea che la scuola fosse un servizio che loro dovevano fornire a noi studenti e non viceversa».

Puro studio o alternava la scuola al lavoro?

«Moltissimi lavoretti. Quello di cui vado più fiero è la posizione da bidello a tempo parziale, guadagnata sul campo mentre studiavo all’università di Cambridge».

È vero che per fondare il Senseable City Lab chiese al Mit un finanziamento di soli 10mila dollari?

«Sì, dollaro più, dollaro meno».

Quando è a Boston cosa le manca dell’Italia e viceversa?

«A Boston le montagne, a Torino il mare».

Noi formiamo i nostri edifici, successivamente, loro ci modellano diceva Winston Churchill. Concorda? E se sì: Torino come l’ha plasmata? E Boston? Londra?

«Torino mi ha educato all’arte e all’architettura, e forse al rigore. Boston all’avanguardia, Londra alla diversità. Di Torino Calvino scriveva: Torino è una città che invita al rigore, alla linearità, allo stile. Invita alla logica, e attraverso la logica apre alla follia».

È uomo del fare, della progettazione, della sintesi, della realizzazione. Che rapporto ha con la parola: scritta e orale? E con le parole altrui?

«Mi piace leggere e scrivere, ma soprattutto ascoltare (anche se cerco di non darlo a vedere)».

Cosa ama leggere nel tempo libero? E in che lingua?

«Cerco di leggere sempre in versione originale. Mi piace moltissimo la letteratura latinoamericana da Juan Rulfo a Ernesto Sabato, da Mario Vargas Llosa a Carlos Fuentes. La ricerca del magico nella vita che ci circonda».

Da uno a dieci: che voto si dà nella gestione del tempo? Dà l’impressione di essere un perfetto capitalizzatore del proprio tempo.

«Non vado oltre un cinque. Vorrei aver tempo per fare molte più cose».

Che progetti bollono in pentola?

«Una grande mostra sul rapporto natura-città per i 150 anni del Canada, un grattacielo a Singapore, una casa sulle montagne del Darjeeling indiano, due progetti che saranno svelati presto a Milano città oggi in grande fermento».

Quando nascono le idee più brillanti?

«Quando ci si rilassa. Quando non le si insegue per forza, ostinatamente. Ad esempio vengono in viaggio – ma anche sotto la doccia. O fumando una canna come si dice a Cambridge, dove ormai la marijuana è legale e viene venduta in piccoli negozietti biologici».

Le piace operare al confine. In un’intervista disse: E’ lì, su quelle linee di demarcazione che una volta segnavano la distanza tra le diverse discipline, che oggi nascono le sperimentazioni più interessanti. Ci fa qualche esempio?

«Un esempio è il mondo della Senseable City a cavallo tra design, tecnologia e scienze sociali».

Anna Franini
Anna Franini
Anna Franini, giornalista di Forbes e il Giornale. Scrive storie di Leadership, Imprenditoria, Innovazione. Intervista fondatori di aziende miliardarie, Premi Nobel, Breakthrough, Academy Awards, Pulitzer, Pritzker.
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