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Da luglio cambiano le regole in materia di smart working, una modalità di lavoro che per taluni è stata una novità, per altri un approccio già sperimentato ed ora definitivamente sdoganato. Che succederà d’ora in poi? Una cosa è certa, i due anni di pandemia hanno sparigliato le carte e spinto a riflettere sui “limiti del modello fordista basato sulla standardizzazione della prestazione e sul sistema di comando e controllo. I segni di quel limite erano visibili da anni”, spiega Arianna Visentini, pioniera in materia, fondatrice di Variazioni, società di consulenza per smart working Variazioni. Di fatto, l’Italia è nelle prime posizioni dei Paesi Ocse per numero di ore lavorate, ma nelle ultime per livelli di produttività. Lo smart Working spinge a ripensare e riprogettare il lavoro in modo più intelligente, mettendo in discussione i concetti tradizionali e superati di luogo e orario di lavoro, responsabilizzando i lavoratori e dando loro maggior fiducia, autonomia e flessibilità. “Se il vecchio modello del comando e controllo passava attraverso un costante presidio visivo, quello della fiducia e monitoraggio vuole dare alle persone spazio e obiettivi periodicamente monitorati” (Visentini).
Cosa è lo smart working?
Non è lavoro agile. Non è lavoro da remoto. O meglio: è una parte di tutto ciò. E’ lavoro intelligente dunque “specific, measurable, achievable, relevant, time-limited (specifico, misurabile, realizzabile, pertinente, limitato nel tempo). E’ un modello organizzativo che vede nella persona una risorsa autonoma e responsabile alla quale concedere la libertà di scegliere luoghi, orari e modi di lavorare. Basta che vengano raggiunti i risultati: da misurare.
Storia
Tra i primi a fare ricorso allo smart working si annoverano Cisco dal 2011 e la città di Amsterdam che nel 2010 inaugura i primi Smart Work Center. In Italia è la legge n. 81 del 2017 a disciplinare il lavoro agile, lo fa con un testo che non contiene però l’espressione smart working. Il lavoro agile è definito “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, ed entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Smart working prima e dopo la pandemia. Raffronto Italia-Europa
Secondo Eurostat, nel 2019 il 5,5% dei lavoratori dei Paesi EU tra i 20 e i 64 anni aveva sperimentato lo smart working. Olanda, Finlandia e Francia erano sopra la media con un 7%. Germania era di poco superiore al 5% e l’Italia sotto la media con un 3%.
Con la pandemia i numeri sono lievitati raggiungendo il 12,4% (+6,9%) a livello EU. Nello specifico, per l’Italia si va dal Lazio che ha registrato un +13,1%, alla Lombardia +11,2%, Emilia Romagna +9,2%, Piemonte +9,1%,Toscana +8,2%, Sardegna +7,5%, Campania +7,3%.
I numeri dello smart working in Italia: ieri, oggi, domani secondo l’ultima indagine condotta dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano.
FOTOGRAFIA 2021: Nel primo trimestre del 2021 gli smart worker erano 5,37 milioni mentre nel terzo trimestre erano già scesi a 4,07 milioni. Lo smart working è presente nell’81% delle grandi aziende (contro il 65% del 2019), nel 53% delle PMI (nel 2019 erano il 30%) e nel 67% delle PA (contro il 23% pre-Covid).
FUTURO: Nel post pandemia si prevedono numeri in crescita. Si stima che lo smart working rimarrà o sarà introdotto nell’89% delle grandi aziende, nel 62% delle PA e nel 35% delle PMI. Ovvero saranno almeno 4,38 milioni i lavoratori che almeno in parte opereranno da remoto, con un +8%. Di questi, 2,03 milioni saranno nelle grandi imprese, 700 mila nelle PMI, 970 mila nelle microimprese e 680 mila nella PA.
BILANCIO (sempre secondo l’indagine del Polimi).
Dalla parte delle aziende: Grandi imprese e PA registrano un miglioramento nella produttività, in termini di efficacia ed efficienza del lavoro, aumentata per il 59% delle grandi imprese e per il 30% delle PA (solo il 5% e il 16% rispettivamente dichiara di aver riscontrato un peggioramento nell’efficienza).
Dalla parte dei lavoratori: per il 39% è migliorato l’equilibrio tra vita privata e lavoro, il 38% si sente più efficiente nello svolgimento della propria mansione e il 35% più efficace. Per il 32% è cresciuta la fiducia fra manager e collaboratori e per il 31% la comunicazione fra colleghi.
Aspetti negativi: Il 28% degli smart worker ha sofferto di tecnostress, il 17% di overworking. Il 55% delle grandi imprese, il 44% delle PMI e il 48% delle PA registrano un peggioramento dell’aspetto relazionale e di comunicazione con i colleghi
Desiderata di lavoratori e manager. Esiti della ricerca condotta da Variazioni tra aprile del 2020 e giugno 2021 su un campione di oltre 50 mila rispondenti tra manager e smart worker del settore privato e pubblica amministrazione. Campione composto per il 12,4% manager e da 84,5% lavoratori.
Dalla ricerca è emerso che 8,4 lavoratori su 10 vorrebbero continuare a lavorare in smart working, con differenze per età (8,6 lavoratori su 10 fino ai 35 anni, per passare a 7,6 su 10 degli over 56) e per ruolo (worker 8,6 su 10, manager 7,2 su 10).
In particolare 8,2 Manager su 10 sarebbero disposti a far lavorare in smart working i propri collaboratori, il dato sale ad 8,5 se il manager è donna.
Mediamente i lavoratori vorrebbero lavorare 3,2 giorni a settimana in smart working, con 1 giorno di scarto tra manager (2,3 giorni a settimana) e lavoratori (3,3 giorni a settimana).