Per 40 anni Adua Veroni (fu Pavarotti) ha condiviso la propria esistenza con un monumento vivente come Luciano Pavarotti. È stata la prima moglie del tenore (dei tenori), l’uomo per il quale è lecito usare il superlativo perché nessun cantante lirico d’oggi, e del passato prossimo, ha raggiunto la fama planetaria e trasversale di big Luciano, riempendo teatri e stadi e con l’onda lunga di più di 100 milioni di dischi venduti. Su di lui è stato girato un docufilm, «Pavarotti» di Ron Howard: tutto è fuorché un capolavoro, ma le riprese di vita quotidiana e qualche gustoso dietro le quinte hanno ricordato perché la gente impazziva per questa leggenda dalla risata contagiosa e d’una spontaneità disarmante, qualità che si saldavano con una voce con dentro il sole e la voglia di vivere.
Ma cosa vuol dire vivere accanto a un mito? Lo abbiamo chiesto ad Adua Veroni che ha ricostruito alcuni momenti del passato con disincanto, equilibrio e bonomia emiliana. Neppure l’ombra d’acredine per lo strappo della coppia (dopo 41 anni di unione, incluso il fidanzamento, entrava in campo Nicoletta Mantovani, poi seconda moglie), ricucito durante la fase dell’epilogo del cantante, quando la malattia se lo portava via nel 2007.
«Vivere con un mito, vuol dire semplicemente annullare sè stessi». Consigli a chi si trova in questa situazione?
«A mio avviso è sano condividere e ponderare le scelte e farsi consigliare da persone fidate e del mestiere. Mai intromettersi, per esempio, nelle questioni che riguardano il rapporto tra l’artista e la direzione artistica di un teatro. È poi importante essere sinceri, e critici. Calato il sipario, tutti lodano l’artista anche quando le cose non sono andate poi così bene. Invece la verità va detta».
Pavarotti accettava le critiche?
«Assolutamente sì, ascoltava le mie osservazioni e anche quelle delle figlie. La critica onesta serve molto più di un’approvazione. E la cosa gli era perfettamente chiara».
Al partner di un artista tocca spesso occuparsi delle questioni pratiche. Accadeva anche a voi?
«Eh, sì. Questi sono i casi in cui devi fare il tuo ma anche quello che toccherebbe all’altra parte della coppia. Se vivi con una leggenda devi fare da contrappeso, risolvere i problemi che potrebbero compromettere la serenità dell’artista. Così come certe comunicazioni vanno fatte nel momento giusto. Ricordo, per esempio, che quando nostra figlia Lorenza fu operata di appendicite, lo avvisai quando tutto si stava risolvendo».
Faceva in modo che vivesse sotto una campana di vetro…
«È così che funziona, l’artista deve potersi occupare serenamente del suo lavoro».
Dove è volata la mente quando ha ascoltato Tosca, l’opera che ha inaugurato il cartellone della Scala?
«Eh… un fiume di ricordi…
Di Pavarotti e Kabaivanksa? Furono Mario Cavaradossi e Tosca al Met di New York, al Covent Garden a Londra, a Vienna, alla Scala….
«Una coppia fantastica. Per interpretare Tosca ci vuole gran classe, e Raina l’aveva, e sapeva anche muoversi meravigliosamente in palcoscenico. Il primo disco che regalai a Luciano fu proprio Tosca interpretato da Maria Callas e Giuseppe Di Stefano».
Perché regalare proprio Tosca?
«Perché in casa mia erano tutti appassionati di opera lirica. Io un po’ meno, devo ammetterlo, però trovavo divertente studiare le trame delle opere; avevo uno zio che collezionava libretti. E mi ero letteralmente innamorata di Cavaradossi (ndr pittore, amante di Tosca), era il mio idolo, mi piacevano il suo patriottismo e il suo coraggio».
Come conobbe Pavarotti?
«Frequentavamo la stessa scuola, l’istituto magistrale. Io avevo 17 anni e lui 18 nella stessa scuola ma non nella stessa classe».
Com’era la famiglia di Pavarotti? Sappiamo che era molto legato ai genitori.
«Erano persone molto semplici, disponibili. Il papà era d’una simpatia genuina. Adorava l’opera, cantava nella Corale Rossini di Modena, dove fece entrare anche Luciano ancora giovanissimo. Adele era più introversa del marito ma molto sensibile e romantica».
Si riavvicinò all’ex marito durante la fase della malattia. La riconciliazione la fece sentire un poco più sollevata?
«Sollevata non direi proprio. Non stava per niente bene sia fisicamente che psicologicamente. È andata così. Diciamo che provavo una gran pena».
Cosa dice del recente docufilm di Howard?
«L’impostazione registica mi è piaciuta e ritengo sia riuscita a far percepire al pubblico l’essenza della personalità di Luciano; mentre, sul piano narrativo, avrei preferito avendo vissuto tante situazioni in prima persona un racconto più puntuale. Ho avvertito poi la mancanza di molti testimoni che hanno veramente avuto un ruolo fondamentale nella vita di Luciano, sia condividendo con lui la realtà di tutti i giorni che l’esperienza del palcoscenico».
A proposito di Scala, così assente nel film di Howard. Cosa ha significato questo teatro per Pavarotti?
«È stata una tappa molto importante. Luciano vi debuttò in Bohème in sostituzione di Gianni Raimondi. Dirigeva Karajan. E affrontare Karajan non era facile ma, per Luciano, è stato un incontro artistico importantissimo».
In che senso non era facile?
«Faceva tremare le vene e i polsi perché era molto esigente, anche se poi i risultati si vedevano. Quando Luciano stava preparando la Messa da Requiem alla Scala con Karajan, io stavo per partorire Giuliana, la nostra terza figlia. Era terrorizzato all’idea di prendersi raffreddori spostandosi fra Modena e la Scala, così non si mosse da Milano e vide sua figlia che aveva già otto giorni».
Quali opere e arie cantate da Pavarotti accendono i ricordi più intensi?
«Senz’altro La Bohème perché gli ha permesso di iniziare la carriera da protagonista, dandogli la certezza che poteva finalmente considerarsi un tenore in carriera. Questo ha fatto sì che potessimo fare progetti per il futuro e di creare una nostra famiglia. Ricordo l’emozione che provai quando, in occasione del debutto, alla fine della romanza Che gelida manina, il pubblico applaudì con grande calore ed entusiasmo. Fondamentale anche il ruolo di Riccardo in Un Ballo in Maschera, personaggio da lui molto amato».
Partiamo dal Covent Garden di Londra
«Luciano fu chiamato a sostituire Giuseppe di Stefano che si era ammalato. L’indomani della recita, i giornali scrissero che era stato scoperto un nuovo talento».
Il Met di New York?
«Il debutto al Metropolitan, sempre con La Bohéme, non fu del tutto fortunato, in quella occasione si ammalò durante la seconda recita e dovette abbandonare, malgrado il successo della prima».
Possiamo immaginare il mix di rabbia e frustrazione quando un malanno manda all’aria una recita. Ma chi sta accanto all’artista, come vive questi momenti?
«Sono situazioni terribili. Ricordo, al Festival di Salisburgo, ero in piedi in galleria seguendo La Bohème diretta da Karajan. Alla fine del primo atto, la voce di Luciano si troncò all’improvviso. Mi sentii svenire, tanto che dovetti appoggiarmi ad una colonna che avevo di fianco. Corsi in camerino e dissi a Karajan che Luciano non poteva proseguire. Lui replicò che doveva continuare anche solo per rispetto di quanti avevano pagato il biglietto. Insistetti di nuovo, ma niente. Karajan fece intervenire il suo medico. Costui mise nella gola di Luciano un ferro, per me lunghissimo, per rimuovere quel catarro. Un ferro di tortura perché Luciano si lamentava per il dolore. Però poi tornò in scena e fu un grande successo».
Nel film, si vede Pavarotti raggiungere il palcoscenico dicendo: «Vado a morire». Era un modo per sdrammatizzare oppure faceva sul serio?
«Soffriva. Non prese mai alla leggera nessuna recita. Aveva sempre paura che un incidente potesse compromettere l’esito della serata. Il cantante è come l’equilibrista, cammina sul filo. La voce è un organo delicatissimo».
A un certo punto, lei fu pure sua agente.
«Non da subito però e sempre in collaborazione con gli altri suoi rappresentanti; la mia esperienza, o meglio, la mancata esperienza, non l’avrebbe permesso. Fin dall’inizio tenevo invece le fila con i vari agenti, tedeschi, inglesi, americani e l’agente italiano che lo aveva scoperto al Concorso Peri. Con questi vi era un continuo scambio di corrispondenza e da loro imparai molto. Proprio in questi giorni mi sono capitate fra le mani copie di lettere, scritte con carta carbone su velina».
Come si stanno trasformando i cantanti? Lei ha il polso della situazione anche perché segue e presiede il Concorso per cantanti lirici Opera-Pienza, in provincia di Siena.
«Innanzitutto, nel tempo è cambiata la morfologia del corpo, forse una conseguenza del cambiamento dello stile di vita. Poi, soprattutto negli uomini, è sicuramente più raro trovare voci di grande volume».
Come è arrivata a questo concorso? Pienza è un gioiello rinascimentale, ma è estranea ai circuiti della lirica.
«Faccio un passo indietro. Alcuni cantanti, vincitori del Pavarotti International Voice Competition di Philadelphia, si rivolsero a me per chiedere supporto e consigli per la loro futura carriera. Avendo maturato negli anni una certa esperienza, decisi di aprire un’agenzia di rappresentanza per cantanti lirici con Angelo Gabrielli e Francesca Barbieri. Tra i giovani cantanti che rappresentavo, vi era anche il mezzosoprano Monica Faralli che, a sua volta, ben sapendo quanto sia importante dare un sostegno ai giovani talenti, ha poi istituito il Concorso Opera Pienza, e mi ha affidato la presidenza».
Soddisfatta dell’operazione?
«Sì perché la soddisfazione nel lavorare per i giovani è grande. La Città di Pienza li accoglie come fossero persone di famiglia e l’Amministrazione Comunale sostiene, fin dall’inizio, il progetto con generosa partecipazione. Non è semplice gestire una tale organizzazione, in cui confluiscono tanti cantanti da tutto il mondo, ma la determinazione e la concertazione del Direttore Artistico Monica Faralli fa sì che tutti gli anni si compia il miracolo. Non ultimo, il concorso annovera una giuria composta anche da direttori e manager di teatri stranieri. Data la precaria situazione dei teatri italiani, è rincuorante sapere che i nostri cantanti possano avere audizioni e contratti con enti esteri. È importante vincere borse di studio ma, ancor più, avere possibilità d lavoro».
Cosa ricorda del primo vostro viaggio a Pechino? Correva l’anno 1986.
«Ci ricordava l’Italia del secondo dopoguerra. Non circolavano auto, vedevi fiumi di biciclette, la gente giocava a morra o a carte sotto i lampioni. Mi colpì la partecipazione di massa agli spettacoli, e questo nonostante i biglietti avessero un prezzo alto. Eravamo nel Palazzo dell’Assemblea del Popolo di Pechino, ed ero seduta al fianco di un personaggio chiave della storia cinese. Mi dissero che aveva partecipato alla Marcia di Mao. In generale, i Cinesi mi piacquero subito. Ricordo il grande calore con il quale fummo accolti».
E invece la vostra prima volta in Russia?
«La prima volta fu nel 1974. Fu eseguita a Mosca una splendida Messa da Requiem diretta da Claudio Abbado e il pubblico fu molto caloroso, ma l’aria che si respirava nella città era opprimente. Tornammo nel 1986, fu un’esperienza molto bella dove, in un paese ancora soggetto comunque a tanta corruzione, si cominciavano però ad avvertire segni di distensione e di cambiamento. Ritornando invece all’esperienza della Cina ricordo che trovammo un popolo dignitoso. Di lì a poco ci invitarono di nuovo, subito dopo la rivolta di Tienanmen. Rimanemmo così colpiti dalla situazione terribile e dall’efferatezza delle immagini che da quel paese lontano ci giungevano, che decidemmo di declinare l’invito».
Una sua opinione su quanto accaduto a Placido Domingo (ndr accusato di molestie ascrivibili a 30 anni fa, non dimostrate, ma che hanno compromesso l’attività americana del tenore dei Tre Tenori).
«Dov’è la verità? Non sta a me poterlo dire, non sono a conoscenza di fatti del genere. Certo le denunce dovrebbero essere fatte non a 30 anni di distanza. Voglio però fare una considerazione esclusivamente artistica: Domingo è stato sicuramente un cantante di così alto profilo che rimarrà, meritatamente, nella storia dell’opera lirica».