Hanno la caparbietà del montanaro che non molla mai, neppure davanti all’evidenza, madre natura li ha fatti per indagare, per superare ogni barriera, sempre e comunque. Competitivi come gli sportivi di classe, sanno che non conta arrivare: devi arrivare per primo; eppure hanno l’abilità di calmare le aspettative, consapevoli che i risultati chiedono anni di lavoro. Quella del ricercatore scientifico, è di lui che stiamo parlando, è una professione così speciale che andrebbe protetta considerati – egoisticamente – i benefici che da sempre ne trae l’umanità. Eppure – per dirla con Dante – gli scienziati italiani sembrano «cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare».
Negli anni sono state create le condizioni, o tempeste, perfette per render loro la vita dura, per questo le conquiste, tante e addirittura da primati, paiono miracoli. Ogni epoca ha posto le sue difficoltà, si va dal Sant’Uffizio per Galileo Galilei alla burocrazia kafkiana, agli scarsi investimenti e considerazione di oggi. «Negli Usa si lavora bene e si vive male. In Italia si vive bene e si lavora male» osservava Rita Levi Montalcini. L’aforisma ci aiuta a comprendere perché, nonostante tutto, qualche nostra punta decide di non andarsene, e come Ulisse mosso dalla sete di conoscenza tenta il viaggio al di là delle Colonne d’Ercole della burocrazia e degli scarsi investimenti.
I RICONOSCIMENTI
Che gli scienziati italiani primeggino internazionalmente non è un’opinione: lo dicono i numeri. I riconoscimenti scientifici più prestigiosi del nostro continente sono gli Erc, l’acronimo sta per European Research Council (Consiglio Europeo della Ricerca), l’organizzazione dell’Unione Europea che premia gli studiosi di talento impegnati in attività di ricerca. Sono 58 i giovani ricercatori italiani che si sono aggiudicati gli Erc dell’ultima edizione nella categoria Starting Grants, secondi dietro alla Germania che ne ha totalizzati 67 ma che investe in R&S tre volte tanto l’Italia. Così come ben 32 hanno ottenuto i Consolidator Grants, di nuovo secondi e davanti a Francesi e Inglesi. Ogni cervellone ottiene da 1,5 a quasi tre milioni di euro a sostegno del proprio progetto. C’è però una nota dolente, la metà di costoro porta il proprio sapere e dote economica all’estero, salvo che riesca a collocarsi nei centri-oasi dell’italico deserto. Conclusione, abbiamo piloti fenomenali ma per quantità superano i circuiti di alta gamma alla loro altezza.
Scendiamo nei dettagli guidati da Gianvito Martino, neurologo, neuroscienziato, direttore scientifico dell’Irccs Ospedale San Raffaele, prorettore alla ricerca ed alla terza missione dell’Università Vita Salute San Raffaele e presidente dell’associazione BergamoScienza che organizza l’omonimo festival di divulgazione scientifica che in 20 anni di storia, grazie all’aiuto di più di 40mila volontari, ha portato sul palco 32 premi Nobel, più di 1.650 ricercatori totalizzando 2.355.921 presenze. È autore di una serie di scoperte, le ultime due sono state pubblicate nel dicembre 2022 e gennaio 2023 su Nature Communications e Nature Medicine. Alla guida di una squadra di più di 30 ricercatori, Martino, lo scorso dicembre, ha individuato una popolazione di cellule staminali del cervello (neurali) che sono coinvolte nei processi cognitivi che ci aiutano a prendere le nostre decisioni, esito che potrebbe aprire la strada allo sviluppo di interventi per migliorare le performance cognitive deficitarie nelle persone con malattie neurodegenerative.
In gennaio, sempre nell’ambito degli studi da lui condotti sulle cellule staminali neurali ha inoltre pubblicato i risultati del primo studio clinico al mondo che prevedeva il trapianto di queste cellule in pazienti con forme progressive di sclerosi multipla aprendo così la strada allo sviluppo di una possibile ed innovativa terapia cellulare.
TROVA LE DIFFERENZE
Domanda. Se le due ricerche fossero state condotte all’estero, cosa sarebbe cambiato in termini di tempi e di finanziamenti? «Oggi non siamo certamente gli unici al mondo a lavorare su questi argomenti ma quando abbiamo iniziato vent’anni fa eravamo tra i pochi, anticipando i tempi. Per quanto riguarda i risultati dello studio clinico posso dire con certezza che questo traguardo è stato raggiunto soprattutto grazie al fatto che siamo al San Raffaele, il primo istituto di ricovero e cura a carattere scientifico d’Italia.
In altre parole, abbiamo il vantaggio di operare in un contesto in cui la ricerca rappresenta l’asse portante della nostra attività, dove i nostri colleghi che fanno ricerca clinica sono di assoluto livello e abituati’ a maneggiare le terapie sperimentali. Al San Raffaele – continua Martino – si lavora bene, puoi fare e chi fa e fa bene va avanti. Nessuno qui cura persone malate senza capire a priori se la ricerca lo può aiutare a curarle meglio, è nel nostro Dna. Ed è appunto la ricerca traslazionale, quella per intenderci che dal laboratorio va al letto del paziente, dove siamo veramente bravi.
Lo siamo perché possiamo contare su una filiera completa che va dagli studenti, tra i migliori d’Italia, che formiamo affinché diventino i migliori medici e ricercatori possibili, alle più di 40mila persone malate che credono in noi a tal punto che oggi partecipano alle più di mille sperimentazioni cliniche che stiamo conducendo. A ciò si aggiungono tecnologie all’avanguardia, e circa 2mila ricercatori, sia clinici che di laboratorio, tra cui giovani talenti (alcuni hanno anche vinto ben 2 o addirittura 3 Erc) e ricercatori più senior che hanno avuto esperienze lavorative formative in prestigiose università straniere». Di fatto, anche qui parlano i numeri, il San Raffaele compete con i più importanti centri di ricerca e università del mondo. Nel solo 2021 ha pubblicato 2.306 lavori scientifici di cui il 40% è stato pubblicato dal top 10% delle migliori riviste scientifiche internazionali ed il 25% è tra il 10% dei lavori più citati al mondo. Sono performance in linea con quelle dei più prestigiosi atenei americani ed europei.
LA PIAGA PRECARIATO
«E in ogni caso, paghiamo il prezzo di essere in Italia. Per esempio, abbiamo difficoltà a reclutare giovani studiosi dall’estero perché il nostro Paese non rientra tra le rotte contemplate dai ricercatori in movimento che ben conoscono i nostri bassi livelli stipendiali e l’instabilità della carriera. Siamo penalizzati da un sistema paese che misconosce il valore della ricerca e la penalizza.
Abbiamo ricercatori bravissimi ma che non vengono messi nelle condizioni di poter operare soprattutto all’inizio della loro carriera, proprio in quegli anni in cui i ricercatori si giocano tutto ed in primis la loro credibilità professionale. Invece, dilaga il precariato, da intendersi come mancanza di concrete e stabili prospettive professionali».
Per dirla con Elisabetta Vitali, direttrice dei programmi italiani della Fondazione Giovanni Armenise Harvard «abbandoniamo gli scienziati a metà carriera, dopo aver finanziato l’avvio dei laboratori, ma prima che siano abbastanza strutturati da ottenere finanziamenti in autonomia: è come finanziare una start up e poi farla morire prima dell’ingresso sul mercato».
La ricerca è una professione creativa, che mal si concilia con la stabilità assoluta, ergo con il contratto a tempo indeterminato. La questione è un’altra però. «Vanno bene i contratti a medio-lungo termine, funziona così anche all’estero, non è che negli Usa l’assunzione sia per sempre, però i ricercatori sanno che chiuso un progetto potranno svilupparne un altro, nella propria istituzione o altrove. I contratti a tempo determinato, inoltre debbono essere numerosi, ben retribuiti e rinnovabili, o meglio garantiti, per molti anni (negli Usa spesso il massimo, ma rinnovabile, è di 10 anni). Esattamente l’opposto di quel che prevede la normativa italiana, che limita nel tempo e nello stipendio i contratti per i più giovani» spiega Pierdomenico Perata, docente di Fisiologia vegetale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa dove è stato anche rettore.
Con Elena Loreti ha coordinato uno studio pubblicato a gennaio sulla rivista Pnas e al quale Perata ha dedicato l’intera carriera, la prima pubblicazione sul tema risale al 1985. La ricerca ha identificato il collegamento tra la disponibilità di energia della pianta e la sua capacità di rispondere in modo adeguato a una condizione di stress ambientale. Di fatto, il ricercatore ha scoperto come una pianta può sopravvivere a un’alluvione e la ricaduta sull’economia reale è facilmente immaginabile.
BUROCRAZIA SOFFOCANTE
L’Italia investe in ricerca e sviluppo 25 miliardi, l’1,5% del pil, percentuale che in Francia sale a 2,4%. I finanziamenti sono risicati eppure non è questo lo scoglio della ricerca secondo Perata. «In nessuna parte del modo gli investimenti nella ricerca piovono dal cielo. Devi saperteli procurare e competere con il collega che studia la tua stessa cosa, i tempi sono fondamentali nella ricerca, il ritardo di due giorni può bruciare il lavoro di anni.
Il problema principale è un altro, ed è rappresentato dalla burocrazia soffocante, un sistema che ci rende inospitali e diversi dagli altri Paesi che faticano a comprenderci. La farraginosità degli acquisti per i quali non puoi usare la carta di credito, vige l’obbligo della turnazione dei fornitori per cui non puoi avere continuità con chi ti soddisfa, devi seguire procedure medioevali nel rispetto di leggi varie tra cui antimafia.
Un meccanismo diabolico, che pare considerare il ricercatore un corrotto o un corruttore potenziale e che chiede a noi ricercatori di spendere ore in un mestiere amministrativo che nulla ha a che fare con la ricerca».
Poi l’amara verità di fondo. «Al cittadino non viene comunicata l’importanza della ricerca, per questo non la percepisce come rilevante, fatica a comprendere che è un’attività dove i risultati arrivano dopo anni, se non decenni, ma senza questa il Paese non ha un futuro. E il nostro investe meno di una singola università americana: possibile?».
EPPURE VINCIAMO
Il sistema non funziona, e allora qual è la leva del nostro successo? Come si spiegano i premi vinti, il fatto che gli scienziati italiani siano tra i più citati nelle riviste che contano? Da dove scaturiscono le varie scoperte? «Gli italiani hanno dalla loro parte una natura che li avvantaggia, sono curiosi, creativi, crescono in un Paese che è stato culla di scienziati ed artisti, dove hanno sempre brillato entrambe le culture scientifica e artistica, vedi il Rinascimento» ancora Perata. Ma la rendita prima o poi finisce
IL CASO CANDIOLO
«Cercavamo il vaccino contro il Covid Abbiamo trovato quello anti cancro»
Si tenta di invertire la rotta a Candiolo, alle porte di Torino dove la Fondazione Armenise Harvard sostiene la ricerca di base in campo biomedico e in particolare aiuta i giovani scienziati attivi all’estero a stabilire il proprio laboratorio in Italia.
Tra costoro c’è Luigia Pace, immunologa di Roma, 46 anni. Grazie al suo rientro, l’Italia si fregia di una nuova scoperta nella lotta contro il cancro. Nel 2018 Pace ha lasciato l’Istituto Curie di Parigi al richiamo di una borsa di studio da un milione assegnatole dalla Fondazione Armenise-Harvard.
All’Istituto oncologico di Candiolo ha dato vita a un laboratorio con otto ricercatori dove ha messo a punto un vaccino anti-cancro i cui risultati sono stati pubblicati su Science Traslational Mediciene ed già testato negli Stati Uniti.
«Stavamo studiando i meccanismi della risposta immunitaria indotta dalle infezioni e dai vaccini RNA messaggero contro il Sars-CoV-2. Concentrati sulla capacità di una popolazione di linfociti di aggredire il virus, abbiamo provato a fare altrettanto con i tumori». Il vaccino usa un adenovirus di gorilla reso innocuo e viene utilizzato insieme ad un farmaco immunoterapico. « Noi ricercatori siamo dei navigatori che di volta in volta toccano le varie sponde della ricerca» ci spiega questa donna talmente sul pezzo e proiettata sul domani da non ricordare che un suo tema da liceale venne premiato tra i migliori in Campidoglio.
L’Università di Padova batte tutti
Attira premi e giovani promesse
L’Università degli Studi di Padova, comunque avvantaggiata per le dimensioni importanti, batte tutti gli atenei tricolore nell’accaparrarsi i premi Erc. Nel 2021 ha guidato la classifica degli enti prescelti dai ricercatori per condurre le proprie ricerche. È stata scelta da quattro giovani vincitori degli Erc Starting Grant e da tre scienziati del segmento Advanced Grants. Si è inoltre aggiudicata 10 milioni di finanziamento vincendo l’Erc Synergy Grant destinato a sviluppare il progetto di un gruppo composto da tre ricercatori e rispettive università: oltre alla capofila di Padova, la Statale di Milano e due istituzioni spagnole. La ricerca si chiama Nemesis e si prefigge di migliorare i deficit neurologici dei pazienti colpiti da ictus stimolando alcune aree del cervello. «Potremo considerare i tre prestigiosi Advanced Grant come una delle migliori celebrazioni per i nostri ottocento anni» afferma il rettore dell’ateneo Daniela Mapelli.