Eric Carlson è l’architetto delle grandi griffe della moda: “Con loro non posso mai sbagliare I designer devono inventare le mode non assecondarle”
Che ci fa un (architetto) americano a Parigi? Progetta senza le inibizioni di chi ha secoli e secoli di tradizione nel dna. La creatività opera così a briglie sciolte, e soprattutto se i committenti non badano a spese. Questo accade a Eric Carlson, fondatore dello studio d’architettura Carbondale, mago nel dare un volto agli spazi che ospitano marchi di lusso.
Su tutti, Louis Vuitton. E’ lui l’artefice di una delle boutique più fantasmagoriche che vi siano: il complesso sugli Champs-Élysées.
Originario del Michigan, con decollo di carriera a San Francisco, ha scelto di vivere in Europa, a Parigi per l’esattezza, perché il lusso di classe continua ad albergare nel vecchio mondo. Solo quest’anno approda in Italia, su invito di Domenico Dolce e Stefano Gabbana che hanno messo sul tavolo di cinque studi d’architettura, tra cui Carbondale, la bellezza di 60 milioni di euro per ridisegnare 12 boutique. Carlson sta lavorando a quelle di Venezia, Montecarlo e Pechino.
Finalmente in Italia.
«Il progetto di Dolce & Gabbana mi ha stregato. Mi piace il, loro approccio innovativo e audace, l’idea di creare boutique l’una diversa dall’altra, espressioni delle città in cui si collocano».
Finita l’era del concept store?
«Esatto. E la cosa è molto stimolante. Perché anziché ripetere all’infinto lo stesso modulo espositivo, lo si forgia a seconda del luogo in cui si trova. E’ indice del cambiamento dei tempi, del resto».
Quindi lavorare in Italia cosa vuol dire?
«Confrontarsi con le bellezze del vostro patrimonio artistico. Impossibile non tenerne conto, non sfuggire al contagio».
E nello specifico: Venezia cosa le ha suggerito?
«Venezia è internazionale. Non è la città della moda e dello shopping come Parigi o Milano, è anzitutto città d’arte, in questo risiede la sua forza attrattiva. L’ho ripercorsa in lungo e in largo per carpirne l’anima, e ho concluso che avrei dovuto incorporare tanta bellezza. E in particolare la bellezza dei vetri di Murano».
Avete tenuto conto anche della Sicilia di Dolce&Gabbana?
«C’è una fantastica combinazione in Dolce&Gabbana. E’ la quintessenza di un marchio italiano che allo stesso tempo trae ispirazione dalle radici siciliane. Per questo ho preso dieci dei miei architetti e sono andato in Sicilia per immergermi nelle tradizioni, luoghi, colori, cibi locali. Siamo stati alla Kalsa, abbiamo pranzato all’ Antica Focacceria San Francesco di Palermo. Ho visitato la Cappella Palatina, l’Oratorio di Santa Caterina d’Alessandria, la Chiesa di Sant’Ignazio all’Olivella, le piazze, palazzi, Bagheria, il Castello Ursino di CataniaQuanta bellezza».
Che cos’è la bellezza?
«E’ un qualcosa che nasce da un’intesa. E’ ciò a cui tendo e che mi sforzo di trasmettere».
Come è cambiata l’idea di lusso negli ultimi anni?
«Il lusso è quel fenomeno che più di tutti è soggetto a continue trasformazioni. Ora vuol dire avere prodotti e servizi personalizzati. L’esigenza è quella di creare un maggior grado di intimità, con piccoli e confortevoli spazi ognuno dei quali offre una categoria di prodotto con un servizio ad personam».
Cosa vuol dire operare nell’architettura di lusso?
«Non permettersi di fare il minimo errore. Il committente mette a disposizione tante risorse, e questo ti rende libero. Però è molto, molto esigente, non ammette il minimo errore. Richiede, poi, massima reattività e velocità. Il mondo del lusso cambia rapidamente quindi bisogna rispondere subito alla domanda. Il lusso è perfezione, è per gente esigente».
E’ il tipico americano workaholic? Lavoro, lavoro, lavoro?
«Non stacco mai, è vero. Del resto vivere intensamente il mondo dell’architettura è una forma di lifestyle, appartiene a uno stile di vita. Viaggio costantemente, visito gallerie, ho incontri speciali. Francamente non ho neppure la percezione che sto lavorando. E’ la mia vita».
Cosa la affascina di più del vecchio mondo e in particolare di Parigi?
«Di Parigi mi piace la qualità della vita urbana. Vivo e lavoro nel centro storico. Raggiungo lo studio a piedi o in bicicletta, immerso nella bellezza. E’ impagabile tutto questo».
Cosa le manca del suo Paese?
«I visi pronti al sorriso».
Ha lasciato la dinamica America per il vecchio mondo. Perché?
«Perché le capitali della moda sono qui. Perché il livello di apprezzamento del lusso sta ancora in Europa. In America la priorità è la quantità. Il mio studio punta alla qualità, non vogliamo costruire ovunque ma nei punti strategici. Negli Usa si perseguono altri obiettivi. L’industria edile ha voluto assecondare certi standard, sistemi e principi economici a scapito dell’originalità, c’è insomma una certa omologazione. Cosa che si riflette nella cultura oltre che nell’architettura contemporanea».
Come sta un americano a Parigi?
«Sono un Americano con studio a Parigi e attivo in tutto il mondo. Però lo ammetto: mi sento un outsider. Il che mi consente di operare con oggettività e libertà, senza il peso di norme e preconcetti».
Come vede gli Usa dell’era Trump?
«Sono molto sconcertato. Veramente tanto. Per fortuna il nostro lavoro prescinde dal mondo politico di un Paese, lavoriamo per privati. E questo mi dà moltissimo sollievo».
Spesso si ricorre all’architettura per far brillare le città sulla scena internazionale. C’è chi taccia questo come mera strumentalizzazione.
L’architettura serve anche a questo. Io approvo senza riserve. Penso al modello Bilbao per esempio: che male c’è?
Vi sono architetti del retail design che consultano sociologi per assecondare le tendenze dell’epoca. Anche lei?
«No, il colpo d’ala sta nell’anticipare le tendenze e magari pure dettare nuove tendenze».
Ha firmato una struttura iconica come Louis Vuitton sugli Champs-Élysées, annoverata fra le mete imperdibili della città. Cosa ricorda di quel progetto?
«Spiegai che il mio approccio sarebbe stato radicale, fui molto chiaro. Volevo incorporare l’idea del viale che è tra l’altro compatibile con l’attitudine al viaggio del marchio. Pensai a una sorta di Guggenheim rovesciato, con i piani circolari al contrario. Aldilà della questione estetica, questo avrebbe consentito di mettere i clienti a diretto contatto con i prodotti».
La Maison come reagì?
«Volevano essere i numeri uno al mondo, mi spiegarono. Per questo mi lasciavano carta bianca, purché avessi in testa il chiaro loro obiettivo. Certo, col senno di poi, ammetto che fu un rapporto molto inteso».
E Bernard Arnault (appunto proprietario del gruppo LVMH), che disse alla fine?
«Era molto soddisfatto, tanto che la collaborazione non si è poi mai interrotta. E noi pure, perché non possiamo dire che la struttura di un negozio sia il fattore numero uno del successo di un brand, però è innegabile che dia un forte contributo. L’architettura è l’aspetto fisico che crea attrattiva e influenza il potenziale cliente. Quindi ci siamo sentiti parte del successo del marchio. Quello è stato senza dubbio un momento magico della mia carriera».
Che clima si respira nella Parigi degli ultimi due anni?
«E’ molto cambiata, cosa che vale per i residenti e per i turisti. Si respira il clima del dopo 11 settembre americano. Parigi deve buona parte della sua economia al turismo, quindi è stata messa in ginocchio. Io viaggio molto, non vivo la città nella sua quotidianità, però questa percezione è evidente».
Viaggia molto perché pur nell’era digitale il cliente lo si incontra di persona
«L’incontro diretto con il cliente è un’altra cosa, muta la qualità del, rapporto. E’ determinante».
Da studente universitario, a cosa ambiva? Puntò subito all’architettura di lusso?
«Da studente cercavo di diventare un architetto con la A maiuscola. Il mio obiettivo era progettare edifici e interni partendo da uno slancio creativo. Subito mi ritrovai a collaborare con studi come Mark Mack, Oscar Tusquets, Rem Koohaas, e con loro sviluppai questa mia idea di architettura pura. Mi imbattei nel lusso nel 1997, invitato a diventare cofondatore e direttore della Louis Vuitton Architecture. E lì potei combinare la mia esperienza di architettura di design con il mondo del lusso».