Diana Bracco guida l’azienda farmaceutica di famiglia: «Essere bravi non basta, conta lavorare in gruppo. Al nuovo governo dico: motivate le imprese»
Diana Bracco è una capitana d’azienda. Si descrive come doverista e lavoratrice. Cosa chiara al padre che la prescelse per la successione. «Ma non ho mai rinunciato a coltivare le mie grandi passioni: l’arte in tutte le sue forme, i libri, la pittura ma soprattutto la musica e l’opera lirica. Mi sforzo sempre di trovare il tempo per visitare una mostra o andare a un concerto alla Scala. Anche l’anima deve essere nutrita».
Qual è la sua forma d’arte prediletta?
«Direi la musica anche se in generale mi piace il bello. Si dice che la bellezza salverà il mondo. Vorrei crederci ma guerre e violenze quotidiane dimostrerebbero il contrario. Guardi questo David La Chapelle alle mie spalle. Viene ritratto il diluvio universale, ma quella scultura centrale rimane bellissima, imperturbabile. Gli artisti contemporanei possono essere molto profondi».
È in prima linea nel sostegno ai giovani. Che idea se ne è fatta?
«In Bracco abbiamo un osservatorio privilegiato. Facciamo selezioni basate sul merito, quindi ci confrontiamo con ragazzi ad alto potenziale. Ma in generale credo che i giovani siano consci della situazione attuale, molto più flessibili di quanto pensino gli adulti. Per esempio hanno metabolizzato meglio dei padri il tema della flessibilità del lavoro, non inseguono il lavoro a tempo indeterminato».
Su cosa devono puntare?
«Non basta più essere ottimi specialisti, bisogna sapere lavorare in squadra. Si deve partire da questa consapevolezza. Che è poi la forza dell’amministratore delegato contemporaneo: sapere mettere assieme la gente, stimolarla, fornire obiettivi condivisi, monitorare e quindi delegare».
È fiduciosa?
«I giovani sono bravi. Vedo i miei due nipoti, i figli di Fulvio, sono impegnatissimi a scuola. Non dico che siano competitivi, ma molto coinvolti sì».
Frequentano una scuola pubblica o privata?
«Assolutamente pubblica. Un liceo classico di lunga tradizione milanese».
Lei frequentò il Parini. Un ricordo da liceale?
«La mente va al professore di greco e latino, Canesi. Aveva perso l’uso delle gambe, si muoveva reggendosi con le stampelle. Aveva gli occhi infossati. Era preparatissimo. Eravamo alla fine della terza liceo classico. Mi chiamò per definire il voto di ammissione agli esami di maturità. Dovevo tradurre un testo mai visto, e senza l’uso del vocabolario. Che fare? Applicai la ferrea logica e in qualche modo uscii dall’impasse. Alla fine mi disse, va bene ti do 9, ma sappi che nessuno ti darà quel voto all’esame. Aveva premiato la mia volontà di risolvere il problema».
Poi come andò a finire con la maturità?
«Presi otto. Il professore Canesi aveva ragione».
Usare la logica, avere chiare le priorità sono aspetti importanti, soprattutto per un imprenditore
«Eh sì. Si va per priorità, quindi si costruisce un percorso. Nelle riunioni qui in Bracco, ormai siamo maestri in questo. C’è il proprietario del processo che disegna l’iter e i vari step. Tutto bene ma confesso che ogni tanto forse sarebbe utile procedere anche per intuizioni».
Sempre in tema di scuola e formazione. Lei è nel Cda della Bocconi, le nostre migliori università faticano a scalare le classifiche internazionali. Dobbiamo preoccuparci?
«Comunque hanno iniziato ad entrarci. Penso alla Bocconi, ai Politecnici. Sta crescendo molto la Bicocca, guidata dall’ottima Cristina Messa che sta portando freschezza femminile ed entusiasmo. La Bicocca è risultata prima a livello nazionale per capacità di attrarre fondi. Certo sono tutte università del Nord. E questo non va bene».
Ma non sono troppe le nostre università?
«Feci una battaglia per limitare il numero delle università, oggi disperdiamo la capacità competitiva. Mi dissero che sbagliavo e che l’idea era quella di una cultura diffusa. Non mi sembra si sia rivelata una scelta vincente. In Italia c’è bisogno di leggere e di studiare, formare dovrebbe essere l’obiettivo prioritario. Un Paese non può pensare di diventare grande e di crescere se non forma».
Si definisce doverista
«Un tempo eravamo mediamente doveristi. Facevamo quello che ci chiedevano».
Nelle memorie, suo padre ha scritto «non ho avuto molto tempo da dedicare alle mie figlie, non ho potuto coccolarle». Fu così?
«Papà è sempre stato molto severo con sé, però non con le figlie. Per la verità, l’educazione era affidata alla mamma. Lui usciva presto di casa e rientrava tardi, noi mangiavano alle 8 in compagnia della mamma e poi via a letto. I genitori cenavano per conto loro. Erano affettuosi, ma rispetto a quelli d’oggi meno espansivi. Sarà bene? Sarà male? Chissà, magari è un bene perché i bambini devono sentire amore. I miei genitori erano molto rigorosi, ma ci sono sempre stati, quando necessario loro c’erano. E questo non è cosa facile. ».
Chi lavora con lei dice che è donna determinatissima e volitiva.
«Sono molto tenace, lo ammetto. Questa è una delle qualità che mi ha poi consentito di fare le cose. È stata la mia fortuna. C’è chi è fantasioso e geniale, ma giustamente (e sorride ndr) non è tenace. Io non mollo facilmente».
Lo intuimmo ai tempi di Expo di cui fu presidente. Difese fino all’ultimo l’Albero della vita, quel totem che è diventato il logo dell’esposizione ma che fu al centro di un braccio di ferro fra i vertici Expo.
«Sono ancora riconoscente agli imprenditori bresciani, furono bravissimi. Ancora mi chiedo come siano riusciti a fare tutto in tempi così brevi. Expo è stata la cosa più difficile che abbia fatto. Avevo il cuore in gola. Però è stata una grande soddisfazione».
La vostra è una storia di capitani di mare, e poi d’azienda. Perché capitanare è anche questione di dna. Giusto?
«A un certo punto la catena dei capitani di mare si spezzò, accadde con mio bisnonno. Percorreva l’Adriatico trasportando le merci dall’Austria verso il Sud della Dalmazia. Ci si imbarcava ignari del meteo, non c’erano gli studi di oggi. Fu così che mio bisnonno perse la nave. Tornò a Neresine, il suo Paese sull’isola di Lussinpiccolo, vicino a Pola, a e si ritrovò a lavorare in Comune. Che tristezza, aveva percorso i mari in lungo e in largo, e finiva in un ufficio. Il nonno era un uomo in gamba, riuscì poi a ricomporre le fortune di famiglia».
Sente queste radici istriane?
«Le sento eccome. Sono debitrice nei confronti di quelli che sono venuti prima di me, al nonno e a mio padre. Mio nonno non tornò mai a Neresine, era un fervente irredentista, dunque una figura scomoda. Anziano, comprò una barca a vela e la chiamò Chérie. Partiva da Fiumicino, e quando gli chiedevano dove volesse andare, rispondeva sempre basta che si vada per mare. Il papà invece tornò».
E lei?
«Sì, con mio padre. Ricordo l’arrivo in Paese. Mi fece un certo effetto quel borgo, fatto di case semplicissime, e poi quei profumi. Una volta lì mi dissi: Tutto è partito da qui, ed ora guarda cosa è diventato il Gruppo Bracco».
I passaggi generazionali nelle aziende di famiglia sono operazioni delicatissime.
«Bisogna consegnare qualcosa con un potenziale da sviluppare. In oltre 90 anni di vita dell’azienda ogni generazione ha portato qualcosa di nuovo: mio nonno Elio creò un’impresa commerciale, mio padre Fulvio realizzò un’industria integrata e io ho puntato fortemente su ricerca e innovazione e sull’internazionalizzazione del Gruppo che ora mio nipote Fulvio Renoldi sta sviluppando con nuove iniziative di marketing globale».
Le radici sono istriane, ma ha Milano nel cuore. Come è cambiata la città in questi decenni? Cosa ha perso e cosa ha conquistato?
«Milano ha perso una sua identità, basti pensare al dialetto».
Che lei conosce?
«Sì, anche se in casa si parlava milanese e istriano».
Tornando a Milano…
«Se n’è andata la Milano delle imprese e fabbriche, quella non c’è più. Però ha guadagnato in tutto il resto. È una città moderna, proiettata nel futuro. Offre potenzialità enormi da cogliere, è ricca di persone piene di voglia di fare e di dare».
Peccato per Ema (Agenzia europea del farmaco). È riuscita a metabolizzare il fatto che sia stata assegnata ad Amsterdam e non a Milano?
«Non è così chiara questa aggiudicazione all’Olanda. Non hanno ancora individuato una sede. Noi avevamo tutto pronto».
In compenso si fa il conto alla rovescia per il Tecnopolo, la cittadella della scienza, nell’ex area di Expo.
«L’Italia ha bisogno di questo, di scienza e cultura. Il Tecnopolo dimostra la capacità di fare, siamo nei tempi che c’eravamo dati. E poi rimane l’Albero della vita… ».
Diana Bracco e le spille. Ma quante ne ha?
«Dovrei contarle, non creda però che siano tutte vere. Tante sono false».
Intuiamo una certa passione per i gioielli.
«Alla mostra di Caravaggio, mi ha colpito un orecchino di Giuditta e Oloferne. Si vede una perla agganciata all’orecchio con un nastrino nero. Io già mi immagino quel nastrino in smalto. Me lo farò fare».
Dal gioielliere di fiducia
«È di famiglia. Ci andava anche mia mamma. È nella vecchia Milano».
C’è poi una passione abbastanza segreta: l’azienda agricola del Botolo.
«Mio marito era di origine monferrina. Così decise di cercarsi un fondo in una posizione molto bella di Nizza Monferrato. Quando è mancato, mi è parso naturale occuparmene in prima persona. Vendere il vino è difficile. Siamo un team a maggioranza femminile, forti e determinate. Stiamo facendo un bel lavoro e forse iniziamo a intravedere luce».
Condurre un’azienda di vino non è una passeggiata per chi guida una multinazionale?
«È un’attività industriale vera e propria dove però i ricavi non sono alti. Si crede che fare vino sia divertente, basti la passione. Fare vino costa. Bisogna preparare il terreno, gli agrofarmaci. C’è la vendemmia, la cantina, i macchinari che si rompono. Poi le barrique: dicevo al nostro enologo che non possiamo continuare a comprare barrique. Però sono ottimista».
Un appello, da imprenditrice, al futuro governo.
«Chiedo attenzione per le imprese. Il presidente francese Macron ha riunito gli imprenditori, li ha incoraggiati. Le imprese hanno bisogno anche di questo, di sentirsi dire sei bravo, sei parte dello sviluppo del Paese. Il governo deve motivare. Quando un’impresa esporta l’80% dei prodotti, fenomeno piuttosto diffuso in Italia, vuole dire che è sana, che lavora bene, ma motivarla serve. Bisognerebbe poi comunicare alla gente che le imprese sono importanti, portano sviluppo, occupazione».
Burocrazia kafkiana, fisco impietoso. Quali altre spade di Damocle pendono sulle aziende di casa nostra?
«Abbiamo troppe dispersioni: nei momenti decisionali e nell’attribuzione delle risorse. Se solo l’Italia, e in particolare il Sud, riuscisse a farsi fare da qualcuno che lo sa fare dei progetti di recupero del territorio paesaggistico, culturale, utilizzando i fondi europei, e poi tutto venisse implementato: ecco questo sarebbe un grande passo in avanti. Ma ribadisco: i progetti dovrebbero essere fatti da chi è all’altezza. Ognuno deve avere un sogno: io ho questo».