Pierre CARDIN

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«Nel pensiero e nel lavoro sono rimasto molto italiano. Alla Francia, che mi ha ospitato quand’ero povero, volevo dimostrare di avere talento», PIERRE CARDIN. 

Pierre Cardin è un novantaseienne che non smette di vivere nel futuro. È sempre arrivato prima di tutti. Ha portato la moda in Cina all’epoca del comunismo duro e puro. Ha vestito i Beatles. Ha griffato ogni tipologia merceologica in tempi non sospetti: ovvero prima che divenisse una tendenza. E sempre in epoche non sospette, ha fatto imprenditoria partendo dal lifestyle italo-francese.

Ecco ristoranti, dimore spaziali e storiche, teatri. È proprio in campo teatrale che Monsieur Pierre Cardin sta investendo le sue energie in questi giorni. Con il nipote Rodrigo Basilicati, ingegnere, pianista, designer, oltre che collaboratore stretto di tanto zio, ha creato uno spettacolo in tour in Italia. Titolo: Dorian Gray. La bellezza non ha pietà.

Anche lei crede che la bellezza non abbia pietà?

«La bellezza è uno stato dell’individuo che ognuno di noi vorrebbe raggiungere, ma non è concesso a tutti. É un modo di essere, non solo estetico. La bellezza fisica esteriore inevitabilmente decade, è la legge della vita. Bisogna rendersene conto il prima possibile, e puntare su quella interiore. Certo, un bell’abito può comunque aiutare a mascherare».

L’Italia è ancora il paese della Bellezza?

«Sicuramente. Per visitarla a fondo, non so se basti una vita intera. Credo che nel resto del mondo non esista un altro luogo con una così alta concentrazione di bellezza, tanto nelle grandi città quanto nei piccoli centri. Quanto bella è l’isola di Capri, ad esempio? Lì conobbi e diventai amico di Jacqueline Kennedy: anche lei era innamorata di quel luogo».

Tutti possono comprendere la Bellezza o è questione di cultura, educazione, attitudine

«La bellezza è soggettiva, c’è chi la percepisce col cuore, altri con gli occhi, altri ancora con la testa. Credo che ognuno di noi abbia una certa inclinazione al bello: chi più, chi meno. Qualcuno poi la sviluppa maggiormente perchè, ad esempio, ha la fortuna di crescere in una famiglia che educa ad apprezzare il bello che si manifesta in un abito, in un accessorio, nell’arte, nella musica, nell’ambiente naturale, nell’architettura, nel design o perfino nel cibo. Certo, chi può permettersi di viaggiare molto, visitando musei o monumenti e venendo a contatto con culture diverse rispetto alla propria é avvantaggiato in tal senso».

E lei come la percepisce?

«Per me, prima è un sentimento che viene dal cuore, poi dagli occhi e dalla testa».

Ha detto che «creare un abito è come dar vita ad una scultura». E lavorare a una produzione come «Dorian Gray»?

«Nel teatro ho trasferito il mio modo di pensare maturato nel mondo della moda, osando sempre. Il mio Dorian Gray è un modo per omaggiare l’Italia portandola nel mondo per far conoscere pure all’estero alcuni suoi talenti».

Lei come vive lo scorrere del tempo?

«Io sono una persona molto fortunata. Fortunato in amore, nel lavoro e nella salute: e questo in tutte le fasi della vita. Si e’ puntualmente realizzato ciò che mi aveva predetto una maga cartomante, che avevo incontrato al mio arrivo a Parigi. In tutto questo mio percorso di vita, sono rimasto molto italiano».

Dove avverte questa italianità?

«Nel sentimento e nel modo di pensare, anzitutto. E poi nell’abilità di lavorare anche in maniera artigianale, tratto tipico di tanti italiani. So cucire, tagliare un abito, non mi limito solo a disegnare, sa? Mi sento poi molto veneto come risparmiatore, perché investo il denaro che guadagno nell’acquisto di immobili, e questa è una caratteristica della gente della mia terra, che mi ha messo al riparo dalle tempeste finanziarie».

In cosa, invece, si sente francese?

«Nella sensibilità di comportamento che ho appreso vivendo in una capitale come Parigi e frequentando certi ambienti molto stimolanti e di classe: a cominciare dal ristorante Chez Maxim’s, da sempre meta del jet set internazionale».

E dal 1981 proprietà Cardin.

«Decisi di acquistarlo dopo averlo frequentato per decenni. Una sera ero lì a cena ed il proprietario mi disse che stava per venderlo a dei finanzieri arabi ad un prezzo molto elevato. Mi chiese se fossi interessato anch’io. Ci pensai una notte, che trascorsi in bianco perché la cifra richiesta anche per me era molto importante. IL giorno seguente firmammo il contratto. Presi una decisione d’istinto, proprio per conservare in mani francesi un monumento storico della mia patria di adozione, la Francia mi ha dato il successo e mi ha fatto conoscere nel mondo intero».

All’Espace Pierre Cardin sono passati molti tra i più grandi artisti del secolo, compresa Marlene Dietrich.

«Fu molto gentile con me, nonostante all’inizio fu rigida. La ricordo ancora. Si presentò con un cappello da uomo, un soprabito con una vistosa cintura. Mise piede nel teatro e disse: questo non è un teatro, è un cimitero. La cosa mi ferì molto. Però poi si addolcì. Anzi ogni giorno mi scriveva una lettera, ma io non le risposi mai. Dopo un anno mi scrisse di nuovo dicendo: Mi piacerebbe fare un profumo con te e lo chiamiamo Marlene. E così fu. In teatro la trattavo come una regina. La facevo accompagnare a casa in Rolls-Royce. Le facevo trovare sempre fiori e Champagne nel suo camerino. Oggi le principesse non godono di questi trattamenti».

Cosa porta in serbo dell’amicizia con Dalì?

«Era un gigante. Con me ebbe sempre un rapporto molto amicale. In presenza di uno o due amici era dolce e piacevole, quando invece era con più persone diventava istrionico e plateale, sempre geniale comunque. Nel 1951 partecipammo insieme al celebre Ballo del Secolo che si tenne a Palazzo Labia, a Venezia: c’erano tutti i grandi nomi dell’epoca, da Orson Wells, all’Agha Khan, da Barbara Hutton ai Duchi di Windsor, da Winston Churchill a Re Faruq. Pensi che nell’occasione Dalì indossava degli occhiali che avevano una doppia lente per ciascun occhio: e nella intercapedine tra l’una e l’altra lente aveva inserito delle formiche vive, che avevamo recuperato insieme a Mestre».

È un pezzo di storia della moda, e non solo. Come vive questa consapevolezza?

«Mi godo il piacere di vivere così, continuando ad immaginare il futuro. Ho trascorso tutta la mia vita a creare. Nel silenzio della notte o anche quando vado al ristorante capita spesso che mi vengano delle idee, e allora faccio dei bozzetti sul cartoncino dei miei appuntamenti che tengo in tasca. Ora sono piuttosto vecchio ma ho ancora voglia di fare e di sognare. I have a dream!».

Dei 72 anni di carriera di cosa va particolarmente fiero?

«Sono fiero di tutto quello che ho fatto. La più grande soddisfazione che ho avuto è stata quella di essere stato nominato membro dell’Académie des Beaux-Arts dell’Institut de France: sono diventato immortale! Pensi che alla solenne cerimonia di insediamento era presente anche un caro amico italiano, Gianni Agnelli».

Lei è stato il primo in una serie di operazioni. I primi sono spesso soli. Vive la solitudine dei numeri primi?

«Ho bisogno di essere solo per creare veramente ed essere originale: sono solo, ma sono sempre accompagnato dalle mie fantasie e dalla mia immaginazione».

Non le piace il lavoro d’équipe?

«Il lavoro di équipe è necessario, da soli non si fa certo molta strada. È però fondamentale che chi guida la squadra abbia visione di lungo periodo e trasmetta entusiasmo cercando di sfruttare al meglio le inclinazioni di ognuno, e dando sempre il buon esempio lavorando molto. Il capo deve poi assumersi le responsabilità, anche degli errori. Sin da giovane mi sentivo portato a fare il leader, per questo, nel 1950, dopo l’esperienza da Dior, ho compiuto la scelta coraggiosa di fondare una mia Maison. E ancor oggi sono io a guidarla. Probabilmente ho dimostrato di possedere qualche dote».

Cosa ha rappresentato e rappresenta per lei il lavoro?

«È la mia vita. Trovo più divertimento nel mio lavoro che in una vacanza o festa. Spesso trascorro la domenica nel mio atelier per sistemare gli abiti haute couture che sono in lavorazione. Se c’è passione il lavoro non é un peso».

«La moda è un mestiere per duri» è il titolo di un libro di Fabiana Giacomotti. Conferma?

«Ci vuole molta costanza e testardaggine, e una buona dose di coraggio oltre che di fortuna. Era così in passato, ma oggi ancor di più».

Grandi marchi di moda italiani sono finiti in terra francese. Come ha letto questi passaggi?

«In certi casi sono soltanto operazioni di speculazione finanziaria, alcuni marchi sono diventati privi di personalità, sono irriconoscibili. I loro fondatori sarebbero scandalizzati. Magari c’é buon gusto, ma manca la creatività, manca un tratto distintivo».

Negli ultimi 70 anni come sono cambiate Italia e Francia?

«Sono due Paesi che hanno fatto passi da gigante dopo la seconda guerra mondiale, favorendo uno sviluppo incredibile: spesso di questo ci si dimentica. Tanti giovani oggi danno tutto per scontato, perché sono cresciuti nel benessere e in democrazia. Io ho vissuto la povertà, la guerra: e la voglia di ripartire dalle macerie. Forse oggi c’é poco entusiasmo, si osa troppo poco: si ha paura di rischiare».

Ha fatto quasi 50 giri del mondo. Dove non tornerebbe mai più e perché.

«Io ritornerei ovunque. Non ho ricordi negativi: anche perché viaggio non per giudicare e raffrontare, ma per arricchirmi culturalmente».

Ha una collezione di 30 mila abiti che non intende vendere. Fanno parte del patrimonio Cardin. Ve ne sono alcuni cui va il Suo particolare affetto?

«Io mi affeziono ad ognuno. Poi certo, ci sono dei capi che ricordo più di altri. Penso ad esempio al famoso manteau rouge di cui poi vendetti 200.000 pezzi all’inizio della mia carriera e che mi indusse a concepire il sistema delle licenze».

L’arte è sempre stata grande fonte di ispirazione. E la natura?

«Tutto mi ispira. Lo stesso Palais Bulles che possiedo in Costa Azzurra si ispira al corpo di una donna».

Oggi come veste la gente? Avverte una generale caduta di stile?

«Non bisogna commettere l’errore di raffrontare epoche molto diverse. Il costume evolve, e secondo me é un bene che la moda oggigiorno si sia democratizzata molto e sia divenuta accessibile anche alle persone che non possono spendere migliaia di euro per un abito. Io in Italia vedo ancora molto eleganza, e anche all’estero l’italiano medio si distingue per questo».

Nel 1978 andava in Cina per la prima volta. Cosa rimpiange di quella Cina?

«Nessun rimpianto. La Cina si è molto evoluta e in tempi record. Quando andai lì ero un hippy per loro, ma allo stesso tempo mi ammiravano tanto».

Altro momento memorabile, la sfilata a Mosca nel 1991. Ricordi?

«A quella sfilata erano presenti 200.000 persone. Sono stato il primo ad utilizzare la Piazza Rossa per una sfilata: é stata una grande emozione, anche per il significato simbolico, direi culturale, che l’evento aveva assunto».

Che rapporto ha con il denaro?

«Con il denaro si fa molto, ma é un mezzo: non certo un fine della vita…».

È figlio di emigranti italiani in Francia. Sente la forza dell’emigrante?

«Sì, all’epoca la avvertivo molto: la mia determinazione era dettata anche dalla voglia di superare le naturali diffidenze che spesso circondano un immigrato privo di mezzi, dimostrando al Paese che mi ospitava che avevo del talento e che potevo metterlo a disposizione. A beneficio di tutti».

Anna Franini
Anna Franini
Anna Franini, giornalista di Forbes e il Giornale. Scrive storie di Leadership, Imprenditoria, Innovazione. Intervista fondatori di aziende miliardarie, Premi Nobel, Breakthrough, Academy Awards, Pulitzer, Pritzker.
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